Egon Schiele, Nudo maschile con fascia rossa che cinge i fianchi, acquarello, 1914, Grafische Sammlung Albertina, Vienna
Che cos’è il trauma? Per Freud con l’espressione “traumatico” noi designamo un’esperienza che in breve tempo fornisce troppi stimoli alla vita psichica, e per tale condizione la sua elaborazione non riesce, portando a “disturbi permanenti nell’economia della psiche”. Secondo la teoria freudiana il trauma rivestiva un ruolo causale in molte patologie psichiche (per approfondire “Ricordi in lista d’attesa“; ““Emdr trauma e cervello” ; “Al di la del trauma“).
Thomas McCarthy decide di portare sul grande schermo un film inchiesta duro, accademico e rigoroso, sul tema pedofilia nella chiesa, ripercorrendo i fatti che tra il 2001 e il 2002 hanno travolto la diocesi di Boston, ottenendo il premio per il miglior film agli Oscar dello scorso febbraio. Il film introduce un tema scottante; la negazione dell’abuso. Una negazione che viene agita molto spesso e a più livelli. Dai familiari delle vittime, fino all’intero contesto sociale in cui l’evento va a inserirsi. Chi paga il prezzo di questa negazione sono ovviamente le vittime.
Estate 2001, i giornalisti investigativi riuniti nel team denominato “Spotlight” di Miami conoscono il loro nuovo direttore, Marty Baron, e le loro vite sono destinate a cambiare. Perché Marty vuole che il giornale torni ad occuparsi di tematiche scomode, ad esempio di pedofilia. Il primo caso di cui si interessano infatti è relativo all’accusa rivolta ad un sacerdote locale, sospettato di aver abusato di numerosi bambini e giovani della sua diocesi, nel corso di trent’anni, lasciato agire indisturbato dalla Curia. Il nuovo direttore è convinto che il cardinale di Boston ne fosse al corrente, ma che abbia fatto tutto ciò che poteva per insabbiare lo scandalo che rischiava di minare la sua chiesa dall’interno.
Vi è mai capitato in certi momenti di avere la sensazione di essere spettatori della vostra vita, di guardare la vostra vita dall’esterno, come lo scorrere della pellicola di un film? Vi è mai capitato di avere la consapevolezza di trovarvi in un momento-chiave della vostra vita, uno di quei momenti che vi ricorderete negli anni a venire, e sentirvi come estranei, incapaci di reagire tempestivamente all’evento che sta accadendo? È una sensazione di de-realizzazione che può durare un po’, perché la nostra mente necessita di un tempo che non corrisponde a quello esterno per processare l’evento, elaborarlo. In quei momenti, visti dall’esterno, potremmo risultare assenti, quasi inebetiti, altrove. È il risultato di un meccanismo di difesa (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa – Quei garanti della sopravvivenza”) messo in atto dalla nostra mente, che percepisce un potenziale pericolo nell’evento in corso e ne ritarda quindi la consapevolezza, come per permettere di prepararci a questa. La nostra mente è tuttavia un tutt’uno ben integrato e, non potendo spegnere a nostro piacimento un singolo interruttore, come quello della consapevolezza dell’evento in questione, subisce una sorta di black-out generale, con il risultato di un nostro “spegnimento”. Il nostro corpo però non può permettersi di interrompere il proprio funzionamento e si trova a rivestire un doppio ruolo: il proprio, e quello della mente, momentaneamente fuori uso. È così che il nostro corpo si sovraccarica ed ha delle reazioni anomale ed anormali, comunemente chiamate somatizzazioni.
Nel 1500, il medico naturalista e filosofo Paracelso paragonò lo stomaco ad un laboratorio alchemico, ossia un forno che permette di elaborare e trasformare gli elementi grezzi in sostanze nutritive ed essenziali per l’organismo fisico e dell’anima, attraverso un fuoco interiore. Lo psicoanalista Wilfred Bion, a distanza di secoli, paragonò l’apparato digerente a quello psichico, evidenziando un processo comune ai due meccanismi: l’introiettare dall’ambiente esterno un’esperienza grezza per poi elaborarla e trasformarla in elementi digeribili, emotivi, perlopiù funzionali all’organismo psicosomatico. D’altronde, nei primi anni di vita, il neonato inizierà a relazionarsi con la realtà attraverso l’esperienza del nutrimento, caricando di forti cariche emotive il cibo introiettato (si rimanda agli articoli: Obesità – L’imbottitura dell’anima e Anoressia – Tra narcisismo e conflitti interiori) , ed associando la sensazione di fame a forti sentimenti di angoscia di morte e destrutturazione, il momento del nutrimento a un forte appagamento dei suoi desideri di vita e il sentimento di sazietà ad un momento di sicurezza.
La pelle: punto di contatto ma anche punto di confine fra noi e l’altro, fra il dentro e il fuori. Costituendo un involucro di protezione per i nostri organi interni, accanto alla funzione di rivestimento corporeo, a quella di termoregolazione e di massiccia difesa da ogni sorta di aggressione esterna, dobbiamo anche pensare che la nostra cute possiede una fondamentale funzione in campo relazionale. Facendo ricorso ad un po’ d’inventiva potremmo quasi associarla ad una fisarmonica, che ora allunga e ora accorcia le sue braccia immaginarie, modulando opportunamente le distanze da tenere nei contesti più diversi in cui si trovi immersa: proviamo a figurarci anche solo per un attimo, come durante un rapporto sessuale fra due amanti quei confini siano ridotti al minimo, quando la pelle dell’uno sembra quasi fondersi con quella dell’altro, prestandosi così ad una piena “esposizione”.
Narra Esiodo: “ (…)dopo aver detronizzato Cronos, Zeus si unì a Metis, la Prudenza, figlia di Oceano e della titanide Thetys. La storia della tormentata successione regale sembrava dovesse ripetersi anche con Zeus, Urano e Gea fecero sapere a Zeus che dopo avergli dato una figlia, Metis avrebbe messo al mondo un figlio più forte del padre destinato a spodestarlo. Zeus allora, memore delle esperienze passate ingoiò Metis, che divenne un tuttuno con corpo di Zeus, prendendo posto nel capo; al momento del parto Zeus avvertì un forte mal di testa e chiese ad Hefèsto, il fabbro divino di spaccargli la fronte. Dalla grande ferita venne fuori una dea, armata di tutto punto, con l’elmo, la corazza, lo scudo e la lancia; era nata Pallade Atena che subito urlò un grido di vittoria e si mise a ballare una danza guerriera.(…)”
Un figlio, un padre. Quel figlio si rivolge al padre chiamandolo ripetutamente per nome, proprio come stesse parlando ad un amico, e lo fa lasciando intendere che quella che io vedo compiersi sotto i miei occhi, sia in realtà una consuetudine ormai consolidata nel loro rapporto. Il ragazzo non tradisce alcun ipotetico o voluto tono giocoso del momento a spiegazione di quella che io, dall’esterno, reputo un’attitudine piuttosto insolita. E mi viene in mente che in un tempo decisamente lontanissimo dal nostro, quello stesso figlio si sarebbe rivolto al proprio padre dandogli del “Voi”, senza dubbio in nome di un timore reverenziale in cui il rispetto verso il proprio genitore era tutto intriso di paura e che in fondo la diceva lunga su quanto distanti si fosse allora dalla possibilità di creare una qualche forma di intimità relazionale anche solo accennata, cosa che normalmente finiva invece col cedere il passo ad algide e formali comunicazioni.
Di certo, quello appena tracciato è un esempio che svela usanze e tendenze fortunatamente ormai del tutto scomparse ed in cui, in un’epoca di assoluta estremizzazione della norma, la facoltà di decidere della vita così come della morte dei suoi discendenti, era un’esclusiva riservata al vecchio padre di famiglia. Ma ci si potrebbe domandare: In un’era come la nostra dominata invece da una cultura che esalta l’edonismo più sfrenato, che fine ha fatto la legge del padre? Quella a cui fa riferimento Massimo Recalcati è però l’unica legge imperversante nel tempo edipico (per un approfondimento si rimanda all’articolo Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre sulla rivista di Settembre 2015).
Narra il mito greco di un Titano, Crono, che evirò e spodestò il padre Urano, sotto richiesta della madre Gea, divenendo a sua volta il Re dell’Olimpo. Nonostante avesse avuto come padre un modello fallimentare che rinchiudeva tutti i suoi figli nel profondo Tartaro, Crono preservava le stesse angosce del padre, ingoiando, di conseguenza, tutti i figli fatti con Rea, per il timore che qualcuno di questi potesse spodestarlo al trono.
Questo mito, come molti di altre religioni pagane e monoteiste, mette chiaramente in scena una dinamica inconscia vissuta nella relazione padre-figlio, ossia l’altra medaglia dell’Edipo (Per approfondimenti si rimanda all’articolo “Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre”): Il complesso di Laio (padre di Edipo).
C’era una volta un re, Edipo, sovrano della città di Tebe; questi, inconsapevole del legame parentale con lei, aveva preso in sposa la moglie-madre Giocasta, vedova del primo marito Laio, ucciso proprio per mano dell’ignaro figlio Edipo; dall’ unione fra lui e la “scomoda” consorte, nasceranno ben quattro figli. In un simile scenario, apparentemente senz’ombra alcuna e che vuole i suoi principali protagonisti all’oscuro della più atroce verità, si cela, di contro, l’emblema dei rapporti incestuosi. Quella stessa verità, una volta svelatasi in tutta la sua crudezza, porterà Edipo, inorridito dagli atti compiuti suo malgrado – cui farà seguito l’impiccagione di Giocasta – ad accecarsi. Un po’ come se, dopo quell’abominio involontariamente perpetrato, come estrema punizione, nulla avrebbe più potuto sottoporsi alla sua visione. Concluderà i suoi giorni esiliato, dimenticato da Tebe e dalla sua gente, allontanato dagli dei. Ed è proprio dalla celebre tragedia greca di Sofocle, l’Edipo re, che Freud trae diretto spunto per dar vita ad una delle nozioni più affascinanti, dibattute e controverse che la storia della psicoanalisi abbia mai conosciuto: il “Complesso di Edipo”, dalla cui modalità di superamento discenderà la futura scelta oggettuale dell’individuo. Esso racchiude in sè l’insieme dei sentimenti e dei desideri di natura sessuale espressi in tutta la loro ambivalenza e provati dal bambino verso i propri genitori: il complesso raggiunge la sua massima espressione fra i 3-5 anni, tempo che coincide con il cosiddetto “stadio fallico”, in cui secondo Freud tutti gli interessi del bambino sembrerebbero ora convogliati, appunto, verso il fallo (presente nel maschio/assente nella femmina.
Ci capita, a volte, di aver paura di qualcosa che a mente fredda reputiamo inverosimile.
Come quelle sensazioni fisiche comuni e diffuse (un mal di testa, un mal di pancia o la scoperta di piccole e antiestetiche macchioline sulla nostra pelle..) che ci spaventano ed evocano in noi incontrollabili preoccupazioni per la nostra salute. Tendiamo ad esternare le paure dal momento che parlarne le rende più digeribili e sopportabili; esse vengono, però, apostrofate come “esagerazioni” dai nostri cari e come “distorte interpretazioni di sintomi somatici” dai medici a cui ci rivolgiamo frequentemente per ricevere rassicurazioni sulla nostra condizione fisica.
Nel persistere di uno stato di angoscia e preoccupazione, ci convinciamo che quel semplice doloretto o fastidio fisico sia il sintomo attraverso cui il nostro corpo ci comunica l’esistenza di una malattia ben più grave. Dal sintomo, alla paura, alla convinzione di nascondere in noi un “seme malato” che può distruggerci piano piano e di fronte cui ci sentiamo deboli ed inermi. Arriviamo a pianificare nella nostra mente strategie poco concrete per scampare alla morte o ad immaginarci catastroficamente come sarà breve il percorso da lì alla fine dei nostri giorni.
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