Mese: Aprile 2016

Allattamento e attaccamento
Viaggio nel mondo delle mamme moderne

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara: “Lo stato di salute e di nutrizione della mamma e del bambino sono intimamente legati, poiché essi formano una sola unità sociale e biologica. La promozione dell’allattamento al seno, riconosce nella corretta informazione in alcuni momenti prenatali e neonatali un’importanza fondamentale nell’offrire alla madre ed al neonato condizioni più favorevoli al successo-soddisfacimento dell’allattamento naturale. Pediatri e nutrizionisti sono d’accordo nel definire che il latte materno rappresenti il miglior alimento per i neonati, in quanto è in grado di fornire tutti i nutrienti di cui hanno bisogno nella prima fase della loro vita, come per esempio certi acidi grassi polinsaturi, proteine, ferro assimilabile. Inoltre, contiene sostanze bioattive e immunologiche che non si trovano nei sostituti artificiali e che invece sono fondamentali sia per proteggere il bambino da eventuali infezioni batteriche e virali, sia per favorire lo sviluppo intestinale”. La fase dell’allattamento costituisce una delle fasi più importanti del trend di sviluppo del bambino ed è cruciale per la costruzione delle relazioni diadiche madre-bambino; durante l’allattamento, infatti, essi sono fusi in un’unione simbiotica all’interno di un stato di scambio di contenuti psichici (all’interno di un campo intersoggettivo). Il bambino, letteralmente, si attacca al seno materno tramite il riflesso della suzione (un riflesso neonatale, uno di quelli indicati come normalmente presenti sin dalla nascita) e grazie a questo contatto profondo e a un susseguirsi di innumerevoli scambi di sguardi con la madre scopre se stesso e l’Altro, che ne garantisce la sopravvivenza. ( per un maggior approfondimento si rimanda agli articoli “Nella mente del bambino – L’uso dell’oggetto: alla scoperta del mondo”). Secondo Freud, questa fase va dalla nascita ai primi 18 mesi di vita (fase orale) in cui la pulsione auto-conservativa (fame, sete, succhiare) si concentra nella bocca che diventa il mezzo tramite il quale il bambino conosce il mondo esterno – il mondo fuori da Sé.

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La colite psicosomatica
L’evacuazione di un sè non accettato

Nell’arco della propria vita, chiunque, dal più sensibile al più razionale, avrà avuto modo di constatare che il proprio corpo e i propri organi sono, molte volte, il rappresentante simbolico di uno stato emotivo inesprimibile verbalmente, divenendo l’organo stesso il mezzo con cui parlare. Ce ne rendiamo conto quando il nostro cuore batte forte dinanzi ad un carissimo amico di cui siamo innamorati ma di cui non possiamo prenderne coscienza perché spaventati dalle conseguenze, oppure dinanzi ad un gran mal di testa, dopo che ci siamo detti “Basta, non ci pensare” (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La cefalea psicosomatica – La logica che uccide”) , o davanti ad una gastrite lancinante causata dai nostri vani tentativi di reprimere vissuti di rabbia verso una persona cara (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La gastrite psicosomatica – Il dolore delle emozioni indigeribili” ). Un organo che viene preso molto spesso in considerazione, dinanzi alle proprie angosce, è l’intestino, rappresentante non solo dei “bassi istinti” ma anche della funzionalità che esso ricopre: eliminare le scorie e, dunque, i vissuti e le parti di sé inaccettabili, attraverso le coliti. 

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Sull’alcolismo
Aggrappàti a un sorso in più

Fine maggio. Un’altra calda e intensa giornata era ormai tramontata. Così, col sole alle loro spalle, Barbara e Paolo – cresciuti insieme e amici per la pelle da oltre un ventennio – si accingevano a prepararsi per il lungo sabato sera che li attendeva. Prima una frugale cenetta a tu per tu, poi giù in piazza per una bevuta con l’intero gruppo, ed infine tutti insieme a fare quattro salti in discoteca, fino alle prime luci dell’alba. Era un bel giovane uomo, il timido Paolo. L’animo gentile, il cuore pulito e tutte le donne del mondo ai suoi piedi. Eppure, c’era in lui qualcosa d’inafferrabile, una scomoda quanto ingestibile parte che faceva il suo ingresso solo nel buio della notte, quando immerso nel clima danzereccio e goliardico generale perdeva pian piano ogni tipo di freno, diventando fumoso e fastidioso tanto quanto le luci accecanti e stroboscopiche dei suoi amati locali. Ogni festino che si rispettasse diveniva teatro di quella sua reversibile e spaventosa trasformazione: via via che l’alcol  andava giù, a fiumi, lui si faceva sempre più pedante, rumoroso. Litigioso.

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I mille frammenti dello specchio. L’universo celato dietro un DCA

La prima volta che ho sentito parlare di anoressia, il più “famoso” tra i disturbi del comportamento alimentare, l’ho collegato in maniera automatica alla pressione culturale relativa alla magrezza. Indubbiamente, infatti, è dilagante nella società occidentale il mito della magrezza e come essa sia divenuta ormai sinonimo di bellezza. Diverse ricerche, infatti, hanno messo in evidenza  come l’indice di massa corporea richiesto alle modelle in concorsi di bellezza come miss America si sia abbassato di circa 2 punti dagli anni 50 agli anni 2000. Tuttavia è decisamente riduttivo e limitante sia per fini di ricerca che curativi, ridurre un dca a meri fattori culturali; questi devono essere considerati solo come uno dei tanti fattori di rischio che sono alle spalle di questi disturbi.

Mi piace usare questa metafora: il dca è la punta dell’iceberg. Sotto lo spettro dell’ acqua c’è tutto il fulcro del disturbo che è strettamente connesso all’individualità del paziente, alla sua storia. In altre parole, apparentemente, vediamo le stesse manifestazioni cliniche, le stesse punte dell’iceberg ma queste celano dei meccanismi ogni volta diversi. Lo specchio non è mai univoco ma spezzettato in mille piccoli frammenti che ogni volta raccontano qualcosa di diverso.

Anoressia, cibo, disturbi alimentari, psicoterapia

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La teoria emotiva dell’obesità
Alla ricerca di un equilibrio tra pieni e vuoti

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

Il tema dell’obesità è stato trattato diverse volte nella nostra rivista (per approfondimenti si rimanda agli articoli “Dipendenza da cibo- il legame tra nutrimento ed emozione” nel mese di febbraio 2015, “Obesità – L’imbottitura dell’anima” nel mese di settembre 2015). Questo perché nei diversi disturbi riguardanti l’alimentazione, sebbene abbiano un’eziologia multifattoriale, la componente psicologica è sempre presente. Per prima cosa sarebbe utile fare una distinzione tra obesità esogena ed endogena. Quando parliamo di obesità endogena parliamo di un disturbo causato da una patologia organica, come può essere ad esempio un problema alla tiroide o una patologia medica di altro tipo. L’obesità esogena al contrario è un disturbo del comportamento alimentare che ha all’origine un’anomalia nel modo in cui è avvertita la fame, a causa di un apprendimento percettivo errato. In entrambi i casi, però, sia che la componente psicologica sia la causa, sia che costituisca una conseguenza del disturbo, è sempre presente. È per tale motivo che con il tempo sono state formulate diverse teorie sull’argomento. Quella che mi piacerebbe approfondire oggi è la teoria emotiva dell’obesità.

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Anoressia e “desiderio di godimento”
Dall’oggetto primario all’ “oggetto niente”, dal seno al digiuno

“Devo masticare in modo che possa avere un’idea del sapore. Ma non devo inghiottire NIENTE. Poi sputo tutto. Così resto me stessa, ma senza rinunciare al sapore”(dall’esperienza clinica di Massimo Recalcati – trattamento di una paziente anoressica che descrive il suo modo di nutrirsi). Il niente è oggi di moda. Non la moda filosofica del nichilismo ma quella patologica dei disturbi alimentari. Anoressia e bulimia assumono come loro specifico oggetto del desiderio il Niente. L’ anoressia mangia il niente. L’ oggetto del desiderio non è mancante ma da ritrovare in quanto usato in modo particolarmente improprio. Ecco perchè l’ anoressia può essere oggi intesa come nichilismo del desiderio.

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