Al di là del trauma. Di perdoni e di rinascite

Settembre del ’45. Un giovane uomo, 25 anni, fattezze tanto perfette da sembrare un dipinto, reduce da uno dei conflitti mondiali più sanguinosi che la storia dell’umanità intera ricordi. Aveva appena fatto rientro a casa, accolto dalla gioia incontenibile di quella famiglia dall’amore ingombrante, che per anni, arrancando alla cieca nell’angoscia, si era addormentata nella notte sognando senza sosta il suo ritorno dal fronte. Ma quell’uomo era gravemente ammalato e non lo sapeva ancora. Una breve quanto intensa esistenza la sua, spazzata via una settimana dopo da una polmonite che non gli lasciò alcuno scampo. Per quella famiglia, è il crollo del domani, il venir meno di ogni speranza e progettualità. La chiusura del mondo. E fu così, che un velo scuro appannò per sempre quegli occhi verdi color del mare in una donna, che nello spazio artico di quello sguardo finì col congelare l’adorato e mai dimenticato fratello.

Dunque, quel trauma – affatto elaborato dalla donna, che negli anni a venire non gli avrebbe mai dato voce – mantenne inalterata tutta la propria carica affettiva inesplosa, producendo inevitabilmente la sua trasmissione alla generazione successiva.  

Così, nel caso in cui un trauma non sia stato elaborato nella generazione precedente, esso è come idealmente “trasferito” alla seconda generazione, “passando” cioè anche in quella successiva, che può sentirsi in qualche modo chiamata a fronteggiarlo: pertanto, se la prima generazione è quella in cui il trauma originario ha luogo, la seconda ne regge il peso psichico, rappresentato dal tentativo di rielaborazione e dotazione di un senso. Un compito, questo, che sembrerebbe spesso affidato – in seconda generazione – proprio a chi abbia scelto di abbracciare la dimensione della cura, che il ruolo dello psicoterapeuta incarna appieno, sì da poter giungere ad una riparazione simbolica. Alle volte, quell’atmosfera traumatica che viene da lontano può estendersi fino alla terza generazione. I modi per rispondere a questa sorta di trasferimento psichico del trauma da una generazione all’altra sono diversi: è il caso del bambino che” sentendo” la sofferenza del genitore decide di accoglierla, prenderla su di sé, nel tentativo di sorreggerlo emotivamente e alleggerirgli il carico, provando, al posto suo, a dare un senso a quegli antichi traumi; nei sogni, emersi in terapia, può esservi traccia dei traumi appartenenti alla prima generazione, o ancora può esservi un passaggio di fantasie inconsce fra l’una e l’altra generazione, senza contare l’insieme delle identificazioni che la persona può assumere su di sé: il bambino può identificarsi con quelle parti sepolte del genitore che raccontano e rimandano al trauma in prima generazione, ma l’identificazione può avvenire psichicamente anche con quelle figure di cui non si è mai fatto conoscenza, ma di cui ad un qualche livello, si è sempre sentita la “presenza” fantasmatica.

Quando parliamo di trauma (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Dissociazione e trauma – Come se non fosse mia accaduto”), ci riferiamo ad un evento dotato di un’intensità tale che la persona che lo subisce fatica a rispondervi in maniera ottimale ed il cui impatto sulla psiche rischia di sconquassare il precedente ordine interno delle cose. È pur vero che il trauma ha una connotazione estremamente complessa che ne rende poco esaustiva la definizione, abbracciando livelli di devastazione e tipologie assai svariate: le diverse declinazioni della violenza possono ricomprendere trascuratezza, privazioni, separazioni, abusi fisici e/o psichici, stupri; ancora, vi sono dimensioni traumatiche che possono essere causate dall’uomo ovvero da catastrofi naturali. Ma la teoria dell’attaccamento ci insegna che quelle del primo tipo – le devastazioni indotte dall’uomo sull’uomo – sembrerebbero favorire maggiormente l’impiego massiccio di misure difensive estreme come quelle dissociative così da meglio fronteggiare psichicamente la rottura della fiducia nell’uomo, che equivale alla rottura del legame primordiale, attaccato alla radice. Non a caso, nel bambino, quando ad essere precocemente attaccato è il legame di base con le figure primarie – che in condizioni di normalità si sintonizzano coi bisogni del piccolo e facendosi tutrici di quell’accudimento amorevole e del contenimento psicofisico infantile – la sfera emotiva e relazionale ne risulterà profondamente compromessa (attaccamento insicuro o disorganizzato). A quel punto, ad esserne inficiate saranno la capacità di regolazione affettiva dei propri vissuti, quella di mentalizzare l’esperienza e quella di entrare in empatia con l’altro: la persona fatica a riconoscere e a decodificare i propri ed altrui sentimenti. Tutto ciò è da leggersi come l’effetto devastante dei vuoti lasciati scoperti dalla relazione col caregiver e che predisporranno la vittima allo sviluppo di livelli di vulnerabilità psicofisica più o meno diffusi (come ad es. disturbi dell’identità, impulsività, disturbi più o meno gravi della sfera corporea, alterazioni dell’immagine di Sé e del mondo, la cui percezione risulterà essere discontinua e frammentata).

Tornando a quelle identificazioni leganti, generate dalla circolarità del trauma, diremmo che è possibile osservare la dinamica vittima – carnefice che ne deriva, per cui la persona, in una spirale maledetta e senza fine, potrà tanto riversare su di sé la violenza originaria ricevuta, in ogni possibile forma di autolesionismo, ovvero, come volendo rendere all’altro pan per focaccia, perpetrando quella violenza all’esterno, sul mondo.

Ciononostante, il paziente gravemente traumatizzato può trovare nella diade col terapeuta presente, accogliente ed aperto all’ascolto del racconto traumatico, un modello “correttivo” dell’esperienza vissuta, che gli consenta la sperimentazione di un autentico legame di fiducia con l’altro e che alla lunga può rivelarsi un fattore protettivo della vulnerabilità psichica individuale determinante, se non addirittura salvifico. In realtà, il lavoro con questa tipologia di pazienti – lungi dal sostenere quell’ atteggiamento di “neutralità e distacco” freudianamente inteso, richiede piuttosto al terapeuta la capacità di sostenere un controtransfert molto intenso e pesante. Un lavoro lungo e delicato, ma che permette la creazione di piccoli grandi spiragli di luce in mezzo al tunnel. Un lavoro che impedisca al paziente di restare imbrigliato dentro ai nodi della ripetizione sterile e fine a se stessa, in nome di una distruttività e di un istinto di morte cui è fedelmente asservita. Entrambi, in quanto movimenti contrari alla vita, non hanno alcuno scopo se non quello di tenere la vittima del trauma ancorata al suo passato, legata al non senso e all’uguale (coazione a ripetere). Eppure, una volta creata l’alleanza terapeutica, ricostruita poi la storia il più possibile dettagliata del trauma originario, a dettare la svolta ci penserebbe l’attenta e profonda presa di contatto col complesso di emozioni più scomode connesse al trauma. Rabbia, odio, risentimento, desiderio di rivendicazione e riscatto, ma anche colpa e vergogna,  in situazioni gravemente traumatiche, generalmente, si fanno preminenti,  avendo come effetto quello di mantenere il soggetto che ne è vittima legato all’idea di un risarcimento che gli sia reso con gli interessi, ma in realtà sequestrandolo dentro atteggiamenti richiestivi che per quanto legittimi, gli impediscono di librarsi in volo verso la propria vera essenza, verso la vita che sino a quel momento non si era concesso di vivere perché perso a inseguire fantasie di rivalsa.

Nel lavoro terapeutico del paziente traumatizzato, il risvolto certamente più auspicabile sarebbe quello dell’accesso al perdono, che lungi dall’assumere sensi di natura cristiana, nell’accezione della Mucci è piuttosto inteso come la capacità di riconciliazione privata ed interna che la vittima fa con gli autori del trauma. Tale possibilità di risanamento interno, che passa attraverso il riconoscimento e l’accettazione della verità traumatica, consente non solo una ricucitura delle ferite nell’individuo – che grazie alla sua resilienza supera ogni forma di brutalità subita – ma il recupero psichico autentico avrà riflessi benevoli sul tessuto sociale, anch’esso toccato da quell’esperienza aberrante (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Resilienza – I veri eroi sono quelli che resistono”). E’ un fare integrazione di quelle parti – di sé e del persecutore – con cui la vittima si è in modo confusivo identificata a lungo e che fino ad allora viaggiavano scisse dentro di lui, non prima però di aver fatto i conti con i forti sentimenti di rabbia che mantenevano vivo il legame col trauma, presentificandolo.

Solo in quel momento, una volta fatto il lutto di ciò che a suo tempo non fu, né mai potrà essere – un (altro) genitore per quel bambino interno che sia in grado di compensare ai danni prodotti dal proprio genitore reale – l’individuo potrà finalmente mollare la presa, lasciando andare e guardando oltre il trauma, così da poter finalmente rinascere se stesso.

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

Per Approfondire

  • Mucci C. Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Corina Editore, 2014
  • Bowlby J. Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’ataccamento. Raffaello Cortina Editore, 1989

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