“A volte un sigaro è solo un sigaro, ma qualche volta è qualcos’altro” 

affermava Sigmund Freud, padre della psicoanalisi.



Questa espressione permise a Freud di sottolineare come, talvolta, un oggetto reale rappresenti il simbolo di vissuti interni e dinamiche inconsce.

In realtà, il sigaro era per Sigmund un piacevole vizio che lo accompagnava nella vita di tutti i giorni e da cui traeva, secondo necessità, sicurezza e serenità per affrontare dubbi ed incertezze sullo studio della psiche, non solo nell’ambiente accademico e clinico, ma anche nella vita quotidiana.

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IL SIGARO DI FREUD nasce dall’idea di un gruppo di psicologi, di accompagnare i lettori verso una genuina conoscenza della psicologia, raccontando, con onestà intellettuale ed un linguaggio fruibile, spaccati di vita quotidiana, facendo chiarezza su alcuni temi ambigui, sollevando sempre una riflessione critica sul lettore interessato e attento.

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Negli ultimi decenni, il consumo di tatuaggi è aumentato notevolmente e abbiamo assistito a un cambiamento relativo al target sociale coinvolto in questa pratica: da motociclisti, membri di bande e criminali di ieri ad appassionati, artisti e professionisti perlopiù appartenenti alla middle class di oggi (DeMello 2000).  La crescente accettabilità sociale della body art ha stimolato l’industria del tatuaggio e attualmente si stima venga aperto almeno un nuovo studio di tatuaggi al giorno!

Secondo uno dei pochissimi sondaggi del settore svolto in America, il 16% degli adulti americani oggi ha almeno un tatuaggio rispetto al 6% nel 1936;  i giovani sono i maggiori “consumatori”: tra i 18 ei 29 anni la cifra sale al 49% (Harris Interactive, 2004).  La crescente e significativa diffusione di questa pratica di modificazione corporea nei giovani ha sollecitato la curiosità di numerosi ricercatori in campo sociale, psicologico e antropologico in relazione al ruolo che l’impiego del tatuaggio gioca nella costruzione, nella “negoziazione” e nella gestione dell’identità di un individuo.

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Qualsiasi diagnosi di disabilità rappresenta per la famiglia un’esperienza drammatica, paragonabile ad un lutto, poiché l’idea del figlio che si era creata durante la gravidanza viene sgretolata dai primi campanelli d’allarme che insinuano il dubbio della presenza di un problema. In un primo momento c’è la speranza di un errore, che tutto possa sistemarsi, ma poi quando arriva la diagnosi, spesso in modo troppo diretto da non lasciare spazio al pensiero, alla rielaborazione di quel turbinio di sentimenti che colpisce e travolge, ci si sente confusi, soli ed arrabbiati.

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