Il caso Spotlight
Il riconoscimento dell’abuso

Thomas McCarthy decide di portare sul grande schermo un film inchiesta duro, accademico e rigoroso, sul tema pedofilia nella chiesa, ripercorrendo i fatti che tra il 2001 e il 2002 hanno travolto la diocesi di Boston, ottenendo il premio per il miglior film agli Oscar dello scorso febbraio. Il film introduce un tema scottante; la negazione dell’abuso. Una negazione che viene agita molto spesso e a più livelli. Dai familiari delle vittime, fino all’intero contesto sociale in cui l’evento va a inserirsi. Chi paga il prezzo di questa negazione sono ovviamente le vittime.

Estate 2001, i giornalisti investigativi riuniti nel team denominato “Spotlight” di Miami conoscono il loro nuovo direttore, Marty Baron, e le loro vite sono destinate a cambiare. Perché Marty vuole che il giornale torni ad occuparsi di tematiche scomode, ad esempio di pedofilia. Il primo caso di cui si interessano infatti è relativo all’accusa rivolta ad un sacerdote locale, sospettato di aver abusato di numerosi bambini e giovani della sua diocesi, nel corso di trent’anni, lasciato agire indisturbato dalla Curia. Il nuovo direttore è convinto che il cardinale di Boston ne fosse al corrente, ma che abbia fatto tutto ciò che poteva per insabbiare lo scandalo che rischiava di minare la sua chiesa dall’interno. 

Come afferma Balier, “la violenza subita nell’infanzia impedisce alla vittima l’accesso alla sua sessualità infantile, che appare svuotata di contenuti affettivi. L’effetto traumatico deriva dalla partecipazione diretta del bambino alla sessualità dei genitori (o degli adulti); il bambino violentato dal padre non può identificarsi con lui, interiorizzarlo e costruire quell’oggetto interno che gli permette di sentirsi a sua volta maschio, uomo e padre. La situazione è aggravata dalla cecità, dall’indifferenza oppure dalla complicità passiva della madre, la cui assenza viene dal bambino-vittima identificata con la fonte della distruttività”, definita dall’autore come confusione primaria a tre. La stessa dinamica sottende il processo della situazione incestuosa, in cui la figlia violentata non può appoggiarsi su un’immagine identificatoria che le consenta di costruirsi l’oggetto interno femminile. In ogni caso, l’attività fantasmatica, che presiede allo sviluppo della sessualità infantile, viene distrutta.

Secondo Sgroi, il riconoscimento dell’abuso sessuale sui bambini dipende totalmente dalla disponibilità interiore delle persone a prenderne in considerazione l’esistenza. Effettivamente il bambino vittima di abuso è spesso l’unico testimone dell’accaduto e se, superate paure e reticenze, ne parla all’adulto, questo deve essere disponibile ad “ascoltare” ciò che il minore gli dice. In alcuni casi sono solo le parole del minore a “raccontare” la violenza subita, dato che, a differenza del maltrattamento fisico, l’abuso sessuale può lasciare segni meno evidenti; in altri le vittime sono così piccole che il disagio difficilmente viene espresso con la comunicazione verbale. E’ il comportamento allora che manda segnali di sofferenza e di aiuto, visibili solo a chi si rende disponibile e capace di comprenderli. In altre parole l’Autore ci porta a soffermarci sull’importanza della disponibilità psicologica dell’interlocutore a prendere in considerazione la possibilità dell’esistenza dell’evento “abuso” per poterlo riconoscere. Una società che nega tale possibilità, per movimenti interni di negazione, che vanno a colludere con volontà potenti di nascondere uno scandalo creano una pericolosa collusione che impedisce al fenomeno drammatico dell’abuso di emergere, di essere denunciato, e soprattutto impedisce al contesto sociale in cui la violenza è avvenuta di prenderne coscienza e di accogliere il vissuto delle vittime di tale violenza, generando un pensiero collettivo e una riparazione condivisa della frammentazione identitaria derivante dall’aver vissuto tale esperienza. Potremmo giustificare quindi con una indisponibilità, se non con una chiara negazione collettiva, i fenomeni spesso arrivati alla cronaca grazie a casi come quelli dei giornalisti del gruppo “Spothlight”, in cui dopo anni di mormorii e tentativi di denuncia soffocati facilmente la verità esplode con la potenza tipica del rimosso traumatico che torna alla luce della consapevolezza.

Una dinamica che Oliva descrive nei casi di conflitti bellici e in termini di memoria collettiva con queste parole “Dimenticare a volte diventa vitale per la sopravvivenza di un individuo o di una comunità. Sul piamo individuale il meccanismo è quello della rimozione. A livello di memoria collettiva invece l’oblio assume due forme caratteristiche: la “rimozione collettiva” o “ il dovere di dimenticare”. Ad esempio, a proposito della Resistenza,  egli parla di rimozione collettiva da parte degli italiani e di uso politico e pubblico della Resistenza come alibi per allontanare-rimuovere appunto- dalla memoria collettiva le pesantissime responsabilità italiane di avere scatenato la Seconda Guerra Mondiale, avendo in gran parte la popolazione sostenuto il fascismo, prima, e l’alleanza con la Germania nazista, poi.  Nei casi di abusi, di violenze collettive, o dirette verso singoli, chi paga il prezzo di questa rimozione collettiva sono le vittime, il cui vissuto non viene riconosciuto, impedendo una “riparazione” e una “rinarrazione” dell’evento all’interno della trama della propria esistenza.

Dott.ssa Valeria Colasanti

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colasantivaleria@gmail.com

Per Approfondire:

 I Vinti e i Liberati, , G. Oliva, A. Mondadori – 1995

 Handbook of Clinical Intervention in Child Sexual Abuse, P 9-37, Suzanne M. Sgroi – 1982

 Psychanalyse des comportements sexuels violents, Claude Balier, Puff – 1996

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