L’insicurezza patologica. Ciò che non amo di me

L’insicurezza è una condizione emotiva insita nell’uomo da sempre. Come ogni pensiero e vissuto esistente nella vasta gamma emotiva dell’essere umano, anche l’insicurezza adempie ad una funzione ben precisa, rientrando in una sfera cognitiva più evoluta. Ci permette infatti di metterci in discussione e, dunque, evolverci e liberarci da quegli aspetti di noi disfunzionali e immaturi. Non a caso persone definite “troppo sicure di sé” sono caratterizzate da una rigidità mentale che non gli permetterà di maturare bensì di assumere un comportamento prevaricatore nei confronti dell’altro, nel tentativo di far valere i propri pensieri e concetti immaturi. L’insicurezza però può strutturarsi in maniera persistente e pervasiva nella mente di una persona, creando un forte senso di stress e malessere interiore, congiuntamente ad un blocco dell’evoluzione del sé, dovuto alla perenne convinzione di fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Questa tipologia di insicurezza la possiamo ritrovare con lievi intensità nelle persone con un sé strutturato e in maniera predominante in individui con un sé non completamente definito.

Per “Sé” intendiamo quella totalità psichica propria dell’individuo che si sviluppa e si consolida in funzione dell’Io ed emerge tramite il riconoscimento empatico dell’altro, diverso dal Sé; in altre parole è la consapevolezza di sentirsi Sé, con le proprie caratteristiche, e riconoscere gli altri come persone diverse da sé sia nel concreto che nelle relazioni. Il sé e l’autostima si costituiscono attraverso l’amore ricevuto dai propri caregiver,  in quanto il bambino comprende che lui è una persona degna di essere amata tanto quanto è stata amata dal mondo (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Organizzazione borderline di personalità – Alla ricerca di un legame d’amore

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Sindrome di Hikikomori. Al di qua della stanza

A casa loro è scesa la sera già da un po’ e i genitori di Leo sono in procinto di mettersi a tavola per la cena. Lui, invece, non ci sarà. Il suo ritmo sonno – veglia è decisamente invertito. Nei mesi, la sua assenza si è fatta consuetudine ed entrambi sembrano ormai come tristemente rassegnati all’idea di non incrociarlo più per casa. Neppure per sbaglio.

Dopo le timide e ripetute opere di convincimento dei primi tempi, puntualmente rivelatesi tutte fallimentari, la madre del ragazzo ha ben pensato di assicurargli almeno un pasto decente al giorno, cosa che fa poggiando in terra un ampio vassoio di cibo, proprio dietro la porta della sua camera. In realtà, Leo consuma il suo pasto in solitaria solo parecchie ore più tardi, quando le mura di casa sono totalmente avvolte dal silenzio della notte e lui può sentirsi libero di sgattaiolare fuori dal suo mondo senza il rischio d’incrociare disgraziatamente lo sguardo dei suoi. Leo è probabilmente uno fra i molteplici esempi di giovani vittime di un fenomeno che ormai (anche) nel nostro paese sta’ prendendo via via sempre più piede: la sindrome di Hikikomori.

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Arteterapia. Portare equilibrio nelle dissonanze psichiche

“L’arte crea una zona di vita simbolica che permette di trascendere il conflitto e di creare ordine nel caos, e infine, di dare piacere.” Edith Kramer scrisse queste parole nel 1971, ed è al suo lavoro e a quello di Margareth Naumburg che si deve la definizione teorica dell’arteterapia come metodo clinico psicologico. Secondo queste autrici i sentimenti inconsci di un individuo possono essere riconosciuti più facilmente in un immagine, che non nelle parole. In queste immagini vengono proiettate emozioni, vissuti, conflitti. Queste immagini quindi, alla stregua di materiale onirico, possono essere analizzate attraverso la cornice teorica della psicoanalisi o della psicoterapia dinamicamente orientata. Come l’interpretazione del sogno in psicoanalisi, lo svelamento dei significati inconsci rappresentati nell’opera artistica vengono esplicitati e resi quindi comprensibili a chi li ha prodotti, grazie alla comunicazione verbale tra paziente e terapeuta.

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E’ solo un gioco. Le prime forme di gioco

Alice è una bambina di cinque anni. Durante la ricreazione, mentre giocava in giardino è caduta dallo scivolo sbucciandosi un ginocchio. Le maestre dopo averla consolata hanno provato a metterle un cerotto, ma lei, troppo triste, non l’ha voluto. Il giorno seguente, tornata a scuola, la prima cosa che la bambina ha fatto è stata quella di chiedere alle maestre un cerotto per la sua bambola che aveva fatto la “bua”.

Il gesto che ha fatto Alice può sembrare insensato e privo di significato, ma provando a vedere cosa c’è dietro quella richiesta avanzata sotto forma di gioco è possibile scoprire un mondo fatto di fantasia, di simboli, di sogni e di magia.

Il gioco è una delle esperienze più belle e importanti che ogni persona vive, si sviluppa già in tenerissima età e molte persone lo conservano per tutta la vita facendogli assumere altre forme e nuovi significati.

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La coazione a ripetere. Sempre i soliti errori

A: “Mi sono persa nel tuo quartiere. Mi guidi tu per telefono per arrivare in macchina fino al bar del nostro appuntamento?”

B: “Certo, dimmi dove sei”

A: “ (posizione) ”

B: “Ok, allora, (indicazioni), poi al bivio giri a sinistra… Uh, aspetta ti vedo, ecco, gira ora a sini… non là, a sinistra!”

A: “Caspita, ho perso l’uscita…”

B: “Dai rifai il giro, e, mi raccomando, quando sei al bivio di prima gira a sinistra”

A: “Ok, capito”

B: “Ma che fai? A sinistra ho detto!”

A: “Ma io ho girato a sinistra…”

B: “No, sinistra è dove ti sto aspettando io… Va beh, fa niente, fermati che arrivo a piedi”

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Il senso di colpa. Schiacciati da se stessi

San Michele e il drago, Raffaele Sanzio.

Il possedere o ricercare una colpa, ossia una causa del male, è caratteristico del genere umano. Nelle antiche tribù, ad esempio, il concetto di morte naturale non esisteva ma si supponeva che quella determinata persona moriva per una colpa che aveva commesso dinanzi agli spiriti della natura oppure era vittima di un sortilegio nemico. Con l’avvento della religione cristiana il sentimento di colpa si insidia ancora di più nella società occidentale. Si crea una netta scissione tra pulsioni, desideri e istinti, che vengono relegati nell’inconscio malefico, personificati nel serpente satanico e, sull’altro fronte, la ragione e la coscienziosità che combattono e mettono a tacere le proprie pulsioni, rappresentati dal divino o, in una famosa opera, da San Michele che sconfigge il Drago. Questa impostazione cristiana fonda sul senso di colpa la propria fede, sul pentimento come redenzione, ed ammette la possibilità di cadere nelle proprie pulsionalità, unicamente se subito dopo ci si pente e si chiede perdono. È da questa tipologia culturale che nel 1800 si è sviluppata in tutta europa l’isteria (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “L’isteria – Psicopatologia dei sessi” ), una patologia mentale dove i propri desideri e le proprie pulsioni non potevano essere espresse, se non con il corpo. Il sentimento di colpa nelle donne era predominante e derivava dalle regole ferree della società patriarcale. Con il passare degli anni, il senso di colpa si è sempre di più strutturato intorno a delle regole interne, e non più unicamente esterne.

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Genitori Tossicodipendenti. Amore tossico

Sempre di più oggi viene utilizzato il termine Addiction per indicare la dipendenza da droghe/sostanze psicotrope, caratterizzata da compulsione a ricercare la sostanza, perdita di controllo nell’assunzione della stessa e presenza di uno stato umorale prevalentemente negativo quando la sostanza non è disponibile. A livello neurobiologico comporta l’iperattivazione della asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il conseguente rilascio di cortisolo nel sangue. In termini evolutivo-clinici, questo meccanismo può essere altrimenti spiegato come un retaggio di esperienze traumatiche vissute in infanzia e non mentalizzate. Le analisi del 2012 in Italia sul consumo di sostanze stupefacenti condotte su un campione rappresentativo di circa 19.000 italiani riportano il numero totale dei consumatori (intendendo con questo termine sia quelli occasionali che con dipendenza da sostanze con uso quotidiano) pari a 2.327.335 (Dipartimento Politiche Antidroga, 2012). Dati provenienti da alcuni studi forniscono un quadro dettagliato in merito all’entità del problema: negli Stati Uniti le donne che fanno uso di cocaina e altri oppiacei in gravidanza sono circa il 3% del totale, dati simili si sono registrati in Australia, mentre è stato calcolato che tra l’11 e il 16% delle donne in gravidanza in carico ad ambulatori neonatali di Londra fanno uso di droghe.

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Donne e Cancro. In guerra con se stesse

Sorrow, Van Gogh

Lo sentii quasi subito. Tutto, era già partito: umori, dinamiche e pensieri. Detti e non – detti, piacevoli e spiacevoli. Gli elementi indicativi di un transfert già potente e pesante, c’erano tutti (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Nella stanza d’analisi – La svolta in un agìto” e “Relazioni terapeutiche – Riflessioni su un caso di buona separazione”). Mi vedevo già lì, intenta a percorrere un sentiero psichico che non sapevo ancora dove mi avrebbe condotto; ma, nonostante tutto, io c’ero, e non avevo alcuna intenzione di fuggire. Per certi versi, si presentò proprio come me l’ero figurata, Carla: a vederla così agghindata si faceva fatica a crederlo, eppure la paziente, splendida donna dagli occhi color nocciola, era prossima ai settanta. E glielo lessi subito sul volto quanto aveva vissuto: un’anima che la vita l’aveva divorata, attraversandola in ogni anfratto e tenendo il piede perennemente puntato sull’acceleratore. Che non si era mai fermata, e forse, neppure ascoltata. Un’anima, che facevi fatica a seguire lungo i discorsi che instancabilmente delineava, tante erano le “cose” e le persone di cui aveva amato circondarsi sino ad allora. Il fare sofisticato, un’intelligenza viva e pungente, eh quel sorriso dolcissimo anche se appena accennato. Ma di colpo, si faceva largo un’ombra, pronta ad incupirla dal di dentro sino a gelarne i densi racconti: quando era il buio a regnare su di lei, sembrava quasi assumere altre sembianze, Carla; l’espressione si faceva inquieta, a tratti interrogativa, ed il volto era talmente provato da condizionarne temporaneamente le fattezze, salvo poi restituirgliele intatte. Eccola lì – pensai anche quella volta – è nuovamente “tornata in sé”.

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Adolescenza. La crisi fisiologica

“A volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane”

Italo Calvino

Ho riflettuto molto sulla scelta del tema di quest’ultimo articolo prima delle vacanze estive, e forse a causa dell’abbuffata di vitamina D grazie al sole di questi giorni, mi è venuto da pensare “bando alla patologia, voglio parlare di normalità”. Che poi sul termine normalità si potrebbe disquisire probabilmente senza mai giungere ad un punto, ma in questo preciso contesto consideriamo normalità come assenza di patologie conclamate: sanità insomma. Per quanto i termini normalità e sanità vicini possano somigliare più ad un ossimoro. Diciamo insomma, senza dilungarci troppo, che questo sarà un articolo che con leggerezza cercherà di fare il punto sulla fase della vita più complicata e da sempre oggetto di studio, dibattito, interesse: l’adolescenza.

L’adolescenza è un periodo della vita che si colloca in continuum con l’infanzia (0-10 anni) e la pre-adolescenza (11-14 anni) e prima dell’età adulta, che è sempre stata fatta coincidere con i 18 anni, la maggiore età, l’età in cui si può prendere la patente, l’età in cui si termina (nella maggior parte dei casi) la scuola superiore, l’età in cui ci si affaccia sul mondo esterno.

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Ricorda che dimenticherai
O “sulla triste convinzione che ci porta a credere di essere macchine fotografiche”

Che cos’è un ricordo? 

Proust ha risposto a questa domanda col libro più lungo del mondo.

“E’ quello che hai o che hai perduto per sempre?” Si chiedeva Woody Allen in uno dei suoi film.

Guicciardini intitola “Ricòrdi” la sua raccolta di riflessioni su quanto sia difficile trovare l’unità nel molteplice della vita e, più in generale, della storia.

Cosa accomuna questi tre personaggi? Forse il fatto che, probabilmente, c’hanno preso. La psicologia definisce il ricordo appellandosi a tutte le caratteristiche che Guicciardini, Proust e Allen hanno individuato.

I primi studi sulla memoria risalgono ad Ebbinghaus, filosofo ed uomo di scienza del milleottocento, che per primo tentò di studiare la memoria in maniera sistematica e controllata. L’esperimento a cui si sottopose fu molto semplice: memorizzare una lista di sillabe e vedere, a distanza di tempo sempre maggiore, quante di queste fossero rimaste in memoria e quante, invece, fossero andate perdute. Insomma, un esperimento a metà tra la lista della spesa che compili ma che dimentichi a casa e i giochini di gruppo che si fanno agli scout.

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