Psycho e altri film. Riflessioni sul tema dell’identità

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Uno dei momenti migliori di questa quarantena è stato immergersi nella filmografia hitchcokiana (ai lettori più attenti non sfuggirà che questo è stato anche un suggerimento proposto dal Sigaro nel periodo di lockdown). Lo ammetto, ho passato gran parte delle mie serate guardando i suoi film e commentandoli in un cineforum più o meno interiore prima di andare a dormire. La consistenza, la forza viva dei suoi personaggi lasciano un segno; nonostante la loro potenza, la loro vitalità sono tuttavia immersi in uno spazio di dormiveglia, un onirico che però è lucido e trasporta dentro lo spettatore.

C’è un tema ricorrente tra questa vitalità dei personaggi, che da addetta ai lavori, non potevo non considerare; è il tema dell’identità. Qualcuno potrebbe dire “sai che novità”, pensando alla salienza che ha assunto la tematica nel 900; tuttavia il grande registro lo svuota di qualunquismi e di boriose banalità e lo porta sulla scena nutrito di originalità e si significati sempre nuovi.

Facciamo un piccolo passo indietro. Cosa significa identità? Il termine deriva dal latino identitas-atis, “medesimo”; riferito a persona significa l’essere quello e non un altro. Se si parla di identità psicologica ci riferiamo al senso e alla consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo (per ulteriori approfondimenti si rimanda all’ articolo IDENTITA’: COME SI RISPONDE ALLA DOMANDA CHI SEI). L’identità è una conquista, a mio avviso è un tema centrale e imprescindibile per il trattamento di qualsiasi tipo di disturbo psicopatologico e percorso psicoterapico; è il centro del senso di sé, del proprio corpo e se vogliamo delle relazione con gli altri e con il mondo. E se questo senso si dovesse alterare? Che effetto potrebbe avere su di noi la perdita dei tasselli della nostra struttura identitaria? Possiamo sostituirci ad altre persone o essere sostituiti?

Hitchcock, identità, personalità, Psycho

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La Misofonia
I rumori che non sopporto di te!

“Preferisco cenare da sola. Sto bene con la mia famiglia, ma quando mangiamo no, non riesco. Non riesco a guardarli mentre muovono la bocca e emettono quei rumori così fastidiosi. Ogni volta che sono a tavola con loro devo sbrigarmi a finire e cercare una scusa per alzarmi prima che tutti abbiano finito, altrimenti non smetto mai di mangiare, tutto il tempo, per attutire i loro rumori con i miei… Perché lo fanno? Perché non capiscono e non si impegnano a mangiare meglio? Mi innervosiscono così tanto, vorrei sgridarli e a volte menarli.



Da qualche anno vado al cinema solo se prenoto i biglietti online. Posso guardare un film serenamente solo in ultima fila, non posso avere persone dietro di me. Odio chi mangia i pop-corn e se sento quel rumore provenire dai posti dietro, impazzisco. La gente è menefreghista, non pensa di poter disturbare, se ne frega e a me questo proprio non va giù!”

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Il fallimento dell’amore romantico. Sui modelli relazionali

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Opera di Miao Keyan per Istituto Italiano Design

Premessa dell’autrice: Il rischio nell’affrontare questo tema è che nel calderone della trovata di marketing dell’amore romantico vadano a finire anche altre forme di amore, che non è affatto l’intenzione di questo articolo. 

L’amore romantico è un concetto che risale al romanticismo, un movimento culturale nato in Germania tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che coinvolge arte, letteratura e musica e si pone in contrasto con il razionalismo illuministico. Il termine romantico deriva dal termine inglese romantic, per indicare ciò che connesso al romance, cioè la letteratura fantastica tipica della letteratura medievale, in contrasto con la narrazione realistica della novel.

L’amore nel romanticismo viene rappresentato come un sentimento d’amore potentissimo caratterizzato da piacere e attrazione nei confronti dell’altro/a, una creatura perfetta che va a rappresentare il mondo intero, con il/la quale anche la passione sessuale è perfetta.

In questo immaginario,l’amore va spesso a braccetto con la morte.

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La nuova eroina del millennio. Il gioco d’azzardo patologico

“Non puoi pretendere di vincere il jackpot se non metti qualche monetina nella macchina” – Flip Wilson (attore statutinense)

Gli operatori dei servizi socio-sanitari e socio-assistenziali hanno potuto assistere in diretta alla “nascita” di una nuova patologia che caratterizza il nuovo millennio : il gioco d’azzardo patologico. Recentemente riconosciuto dal DSM-5, il gioco d’azzardo patologico è definito come una forma di dipendenza senza sostanza.

La parola nascita è inserita tra virgolette in quanto l’eccesso nel gioco d’azzardo è un fenomeno conosciuto fin dall’antichità, tuttavia prima dell’apertura del mercato d’azzardo esso era limitato a pochi soggetti frequentanti i famosissimi casinò, gli ippodromi o le bische clandestine; oppure i rituali giornalieri del gioco del Lotto o quelli annuali della lotteria Canzonissima.

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L’ultimo incontro. La fine della terapia

Come ogni relazione, anche quella terapeutica giunge a un termine.

Ma qual è questo termine, chi lo stabilisce e quando, rappresenta una controversia teorica e metodologica iniziata accademicamente dal 1937.

Freud non aveva dubbi circa il significato della fine di un’analisi. Essa si considera tale quando «paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche». In altri termini quando paziente e analista ritengono di aver raggiunto, ciascuno dal suo punto di vista, la meta prefissata: il primo il benessere psicologico personale e il secondo la convinzione di aver portato il paziente ad una condizione che lo garantisca dal «rinnovarsi dei processi patologici in questione».

Egli affrontò la questione in un saggio fondamentale scritto nel 1937, «Die endiiche und die unendiiche Analyse»,  ovvero «Analisi terminabile e interminabile». Per Freud l’analisi «definitivamente portate a termine» comporta l’assunto che la guarigione analitica possa essere definitiva, ovvero che il conflitto pulsionale (tra Es ed lo) sia risolto per sempre e non possa ulteriormente verificarsi.

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Insicurezza? 5 consigli utili per comprenderla

L’insicurezza è un vissuto emotivo esperito più volte nella vita.

Generalmente ci si sente smarriti rispetto ai propri pensieri e si teme rispetto ad eventuali scelte da dover prendere. Talvolta l’insicurezza può essere più radicale, arrivando a temere un giudizio negativo verso sé stessi e la propria persona. 

Di base, come ogni sensazione emotiva esistente, anche l’insicurezza porta con sé una funzione preziosa, ossia quella di entrare in contatto con realtà diverse da quelle abituali e mettere, dunque, in discussione modelli di pensiero e credenze disfunzionali o non più adattivi. In altre parole l’insicurezza è fondamentale per accedere agli stati di crisi necessari per la crescita personale e l’evoluzione del sé.

Talvolta però, l’insicurezza può diventare persistente e ci impedisce di accogliere e fare esperienza anche delle nostre competenze interne, ossia delle parti di noi strutturare.

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Rinascere dalle proprie ceneri. La resilienza nelle persone

​Molti già conosceranno il mito della Fenice. Volatile in grado di controllare il fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. I primi a raffigurare il mito della fenice sono stati gli egizi, poi, l’uccello dalla grande saggezza e dalle lacrime curative è entrato a far parte dei miti greci e di molte popolazioni orientali.

In particolare in Cina, il termine fenice viene tradotto come Feng Huang ed inizialmente stava a rappresentare non uno, ma due uccelli, uno maschio(feng) ed uno femmina(huang) ed insieme andavano ad ampliare la metafora dello Yin e dello Yang.

Feng huang e Yin e Yang, quindi, come dualità che armonizza ogni cosa.

Il mito della fenice spesso viene associato alla resilienza richiesta all’essere umano per fronteggiare un lutto o qualsiasi forma di trauma.

Jung nel suo libro “simboli della trasformazione” risalta la somiglianza tra il volatile e l’essere umano

“Questa emblematica creatura di fuoco, in grado di risorgere maestosamente dalle ceneri della sua stessa distruzione, simboleggia anche il potere della resilienza, l’ineguagliabile abilità di rinascere molto più forti, coraggiosi e luminosi.”

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Lebenslagerschicksalsschatz. Amore e semplicità

Klaus«C’è una parola, in tedesco, Lebenslangerschicksalsschatz. E la traduzione più vicina è “Dono del destino di tutta una vita”.

E Victoria è wunderbar, ma non è la mia Lebenslangerschicksalsschatz.
E’ la mia Beinaheleidenschaftsgegenstand, capisci?
Vuol dire “la cosa che e’ quasi quella che vuoi… ma non esattamente”.
Questa è Victoria per me.»

Ted«Come fai a sapere che non è la Lebenslangerschicksalsschatz? Voglio dire, forse, col passare degli anni, diventera’ piu’ Lebenslangerschicksalsschatz-osa.»

Klaus«Oh, nein, nein. Il Lebenslangerschicksalsschatz non è una cosa che si sviluppa con il passare del tempo. E’ una cosa che si crea all’istante. Ti passa attraverso come l’acqua di un fiume dopo una tempesta che ti riempie e ti svuota allo stesso tempo. Lo senti in tutto il corpo, nelle mani, nel cuore, nella pancia, sulla pelle e ovviamente anche nello Schlauchmachendejungen.
Scusa il francesismo. Ti hanno mai fatto sentire in questo modo?»

alla fine arriva mamma, amore, attesa, comprensione, how i met your mother, incontro, relazione, semplicità

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