Sul tatuarsi. Dei confini di un corpo

Facendo un rapido salto all’indietro, è possibile scorgere nelle prime pratiche d’incisione del derma, significati ben precisi, come quello di fornire preziose informazioni sullo status sociale e sul gruppo di appartenenza della persona che le portava su di sé; ancora, quelle stesse tecniche di alterazione corporea, venivano impiegate come vere e proprie pratiche curative per la psiche ed il soma, (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il tatuaggio – Storie incise sulla pelle”) attribuendo così a quei segni complessi, funzioni al limite del magico. Certamente, ad oggi, la diffusa moda del momento – che incita sempre più tristemente all’omologazione ed alla sterile quanto esibizionistica mostra di sé, spesso “traducibile” nell’ostentazione di un involucro iper curato e opportunamente “segnato” – ha come spersonalizzato e svuotato di senso l’antica arte del tatuaggio. 

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PAS – Sindrome di Alienazione Parentale. Quando tra mamma e papà uno dei due è di troppo

Padre, occhi gialli e stanchi,
cerca ancora coi tuoi proverbi a illuminarmi…
Madre, butta i panni,
e prova ancora, se ne hai voglia a coccolarmi,
perché mi manchi,
e se son stato così lontano è stato solo per salvarmi!

(Padre Madre – C. Cremonini)

Le parole di questa canzone “Padre-Madre”, sono state scritte quando l’autore aveva poco più di vent’anni. Il messaggio che traspare è doppio, ambivalente: da un lato chiede di continuare a poter vivere la sua esperienza di figlio, guidato dai genitori, dal loro sentimento, dall’ idea amorevole che ha di loro; dall’altro quasi chiede perdono per aver voluto camminare accompagnato dalle sue esperienze, da un vivere più autonomo. Una certezza: entrambi i genitori sono presenti sullo sfondo si potrebbe pensare quindi, che il susseguirsi delle tappe evolutive di chi scrive sia stato accompagnato da entrambi a garanzia del triangolo edipico, la loro presenza è reale e sia lui che lei appaiono indispensabili, come se nominarne solo uno non avesse senso, perché è da entrambi che si impara a vivere.

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La quarta età. L’invecchiamento consapevole

Molte famiglie si ritrovano in situazioni di emergenza, o comunque di difficoltà nella gestione dei loro cari che stanno invecchiando. Ci si interroga su quale sia la situazione più opportuna per consentire ai “nostri nonni” di vivere la loro anzianità nel miglior modo possibile.

Spesso il dilemma maggiore riguarda il luogo dove gli anziani dovranno passare il loro tempo e chi se ne dovrà prendere cura; continueranno a vivere nella loro casa? Andranno nella casa dei figli? Oppure in una casa di riposo o di cura? Avranno bisogno di un/a badante?

Ovviamente ogni situazione è a sé stante ed incomparabile con un’altra, ma cercheremo, analizzando scenari generici, di dare qualche utile spunto di riflessione.

Prima considerazione, che per molti potrà sembrare scontata, ma purtroppo non sempre lo è, riguarda la volontà dell’anziano. Alcuni figli o parenti si sentono in diritto di sapere quale sia la cosa migliore per i propri cari, senza prendere in considerazione l’opinione degli stessi, senza comunicare con loro. A volte, gli anziani, per non creare problemi e per non sentirsi “un peso”, accettano malvolentieri situazioni che avrebbero rifiutato se fossero stati interpellati, se avessero avuto una possibilità di confronto.

Il dialogo in molte circostanze può essere la chiave per la giusta soluzione; capire cosa realmente un anziano si aspetta dal proprio futuro, analizzare congiuntamente le varie possibilità e non permettere che il carattere e le volontà dei nostri vecchi vadano spegnendosi.

“Lasciati guidare dal bambino che sei stato”

José Saramago

Josè Saramago ci lascia immaginare nonni che ritrovano la spensieratezza e l’ingenuità dei bambini, “qualità” che permettono loro di affrontare anni difficili con spirito e rinnovata curiosità; ma ci sono anche anziani che non accettano il passare dell’età e che vanno maggiormente supportati e coinvolti nelle decisioni che li riguardano, per far si che tramutino l’ansia e lo scontento in rilassatezza e godimento del tempo a disposizione.

La seconda considerazione vuole sottolineare che spesso le famiglie si comportano come se avessero davanti soltanto due alternative nette, come se esistessero soltanto il bianco o il nero.

Se un anziano si ritrova tutto il giorno in casa da solo, si pensa che l’unica alternativa sia uno spostamento in una casa di riposo, mentre invece, anche se poco pubblicizzati, da anni sono presenti in tutto il territorio nazionale centri diurni per anziani (centri con attività dal mattino al pomeriggio, con  organizzazione  funzionale al raggiungimento degli obiettivi di socializzazione e di aggregazione dell’anziano utente, che diventa egli stesso risorsa del territorio); che permettono all’anziano di trascorrere la giornata in compagnia dei coetanei, e alla famiglia di lavorare o comunque svolgere le proprie attività.

Qualora l’anziano in questione non volesse inserirsi in un centro diurno, un’ altra alternativa potrebbe essere quella dell’attivazione di un servizio di assistenza domiciliare, la quale fornirebbe all’anziano la presenza di un assistente nella propria casa per alcune ore della giornata e permetterebbe alla famiglia una migliore organizzazione.

Sia la partecipazione ad un centro diurno, sia l’attivazione dell’assistenza domiciliare possono, e a volte necessariamente devono, essere integrate con la presenza di un/a assistente o badante privato/a.

(Per l’attivazione dei servizi di cui si è parlato si può far riferimento al P.U.A, punto unico di accesso, del proprio territorio di residenza)

In questa terza ed ultima parte parleremo degli anziani affetti dal morbo di Alzheimer o da demenza senile.

Questo argomento mi ricorda un passo dell’”Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, dove l’umanista olandese facendo parlare la follia, descrive la vecchiaia:

…finchè non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io…per quanto è possibile non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti.

Ma delirano ormai, non ragionano più! Certo. E’ proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse che tornare fanciulli non significhi delirare e non avere senno?e non è proprio questo, il non avere senno, ciò che più piace di quella età?

Così, per mio dono, il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta di bere è un allegro compagno; non avverte il tedio della vita, che l’età più vigorosa sopporta a fatica.

Questo scritto mi ha sempre strappato un sorriso e aiutato a sdrammatizzare situazioni complicate.

Avere un anziano affetto da Alzheimer o da demenza senile in casa comporta un impegno immensamente gravoso per le famiglie che si occupano dell’accudimento, per questo spesso ci si rivolge alle R.S.A. (Residenze Sanitarie Assistenziali), che accolgono in degenza anche persone con queste patologie.

Il distacco totale dalla propria abitazione e dalla propria routine può essere particolarmente destabilizzante per questi anziani; avere vicino i propri cari nei momenti di lucidità può  rivelarsi invece un punto di forza. Per questo, laddove fosse possibile, sarebbe sempre opportuno preferire ad uno spostamento in una Residenza specializzata, l’attivazione dei servizi precedentemente descritti(Centri diurni e assistenza domiciliare), anche per questa categoria di nonni.

Questi inoltre hanno diritto al riconoscimento dell’invalidità e dello stato di handicap; quindi di poter usufruire insieme ai familiari delle forme di sostegno previste, come il permesso di sosta auto per invalidi, la riduzione dell’orario di lavoro, la pensione di invalidità civile, l’indennità di accompagnamento e l’esenzione dei ticket sanitari. 

Motta, cantautore e polistrumentista pisano, in un passaggio significativo del ritornello della sua “Del tempo che passa la felicità” scrive:

…Sarebbe bello finire così, lasciare tutto e godersi l’inganno, ogni volta, la magia della noia del tempo che passa la felicità…

In questa frase leggo quello che vorrei per i grandi anziani. Staccare dagli obblighi, dalle imposizioni della società e dalla freneticità della vita, accogliere la noia, godere di questa, lasciandosi i problemi alle spalle.

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Ancora sul lutto. L’indicibile esperienza della perdita

Il lutto è la reazione affettiva alla perdita di una persona amata che sconvolge tutta la nostra vita. Chi amavamo dava un senso al nostro mondo, la sua perdita è quindi anche esperienza di perdita del senso stesso del mondo, è un vero e proprio terremoto. Per l’inconscio l’esperienza della morte non può avere un senso né può essere accettabile: “come può una persona per me importante scomparire da questo mondo senza che il mondo cambi con la sua assenza?”. Solo a partire da questa premessa è possibile addentrarsi nella comprensione delle reazioni psichiche alla morte di una persona cara.

Le risposte individuali al lutto solitamente oscillano tra il polo maniacale e quello melanconico per poi, in alcuni casi, riuscire ad attraversare l’esperienza della perdita attraverso un lavoro complesso legato alle memorie traumatiche e alla relazione con l’altro. La risposta maniacale al lutto è caratterizzata dalla centralità del meccanismo di difesa della negazione: il soggetto nega in modo ostinato il carattere indigeribile dell’evento della morte. È una risposta anestetica. Dietro questa reazione, infatti, si nasconde il terrore dell’esperienza del vuoto, negando il ricordo e il dolore attraverso un lavoro di spostamento di energie prima investite sull’oggetto perduto ora su qualcos’altro. Una realtà assoluta del lavoro sul lutto è quella della necessità della reazione di autentico dolore psichico inconsolabile per un tempo significativo. Senza l’esperienza effettiva del dolore non vi è un lavoro sul lutto, ma un dolore strozzato con conseguenze sulla vita del soggetto spesso nella direzione del corpo, legate per esempio a disturbi di somatizzazione che si manifestano anche a distanza di anni o nei casi più complessi alla manifestazione di malattie auto-immuni.

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La società in crisi. Alla ricerca di un capro espiatorio

L’individuazione di un capro espiatorio è una dinamica caratteristica di qualsiasi gruppo, e generalmente si attiva per spostare ed attenuare la minaccia di sfaldamento del gruppo stesso: per evitare conflitti interni tra i vari membri del gruppo, generalmente viene individuato l’elemento ritenuto più disturbante, perché diverso dai valori comuni, e si accusa tale individuo di essere il portatore del malessere dell’intero gruppo. In tal modo il capro espiatorio porta con sé una duplice funzione: diviene il contenitore del malessere di tutti i membri e garantisce la sopravvivenza del gruppo stesso. Renè Girard teorizza che la dinamica del capro espiatorio è alla base della creazione dei miti d’origine, osservando come non solo nei piccoli gruppi, ma soprattutto nel collettivo e nella società di un paese o nazione, l’individuazione del capro espiatorio permetta di evacuare in parte la violenza ed il malcontento del popolo. Girard esamina la struttura tipo di un mito ed osserva come generalmente inizia con una persona che porta con sé una diversità, come l’essere uno straniero o l’avere una disabilità fisica (lo zoppo Edipo) o psichica ( il folle Dionisio).

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“Non ho voglia di fare niente”
I confini fra pigrizia e depressione

Oggi desidero elogiare il mio attuale sentire: un desiderio del dolce far niente.

Mi sento riscaldata dal pensiero dei pigri, di chi (come me) brama le mattine domenicali in cui poter rimanere sul divano, avvolti in una morbida, calda coperta di lana, protetti dal proprio bozzolo, inermi ad aspettare lo scorrere delle ore, felici di non fare niente di niente…

La pigrizia è un lusso che possono (e riescono) a concedersi in pochi.

Sin da piccoli ci insegnano che dobbiamo essere attivi, raggiungere e creare perennemente nuovi obiettivi: produttività è la parola d’ordine della società moderna. L’effetto di un locus of control esterno, dunque l’attenzione maggiore verso ciò che si pensa possa essere socialmente accettabile, condiziona il nostro modo di agire e anche i vissuti associati al non-agire. 

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La psicologia del male. da Mindhunter a Manhunt

Mindhunter 2017 – Denver and Delilah, Jen X Productions, Panic Pictures / No. 13, Netflix. Image courtesy of Netflix

Il filone dello “psychological thriller” cinematografico è in auge da decenni, e può trovare un suo capostipite in Alfred Hitchcock, e i suoi ritratti, più o meno disturbati, del “male” nascosto nella mente di personaggi apparentemente irreprensibili come Marnie, una algida e sfuggente segretaria che in realtà è una ladra compulsiva a causa di un trauma subito da bambina; o come Norman Bates, apparentemente innocuo e insignificante gestore di un motel fatiscente di proprietà della madre, in uno svincolo autostradale ormai deviato, che in realtà è un omicida seriale, il quale ha cominciato la sua attività criminale proprio avvelenando la madre e il suo nuovo compagno.

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Harlow e Bowlby. Esperimenti e teorie sul vero amore

Un forte scossone alla teoria che il legame del bambino con la madre (la diade) derivi dal fatto che sia lei a fornire il nutrimento, è stato dato negli anni ’50 da una serie di ricerche (riassunte in Bowlby, 1969) dirette da Harry Harlow, un Primatologo Americano, sulle conseguenze della deprivazione di cure materne in piccole scimmie “rhesus”. In un esperimento, le piccoline venivano allevate in una gabbia, in cui erano collocate due “madri” surrogate, cioè due pupazzi con il corpo formato da un cilindro di filo metallico e una testa stilizzata. Uno dei due pupazzi era ricoperto da un rivestimento di tessuto a spugna, che offriva un morbido contatto, mentre l’altro, di dura rete metallica, fungeva da supporto al biberon. Le scimmiette passavano la maggior parte del loro tempo aggrappate al simulacro rivestito di panno, avvicinandosi all’altro solo al momento di mangiare. La tendenza a cercare vicinanza e contatto sembra perciò indipendente dalla nutrizione e dalle soddisfazioni fisiologiche che ne derivano.

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