Hikikomori. I giovani ritirati

Oggi volevo parlarvi di un fenomeno di cui mi occupo da qualche tempo e che attualmente sta prendendo piede anche in Italia. 

Il termine hikikomori, che significa isolarsi/ritiarsi/chiudersi, fu coniato dallo psichiatra Saito Tamaki negli anni ’80, periodo in cui la comunità scientifica giapponese iniziò a registrare i primi casi di questo fenomeno ( per un maggior approfondimento si rimanda agli articoli 

Sindrome di Hikikomori – Al di qua della stanza” e “Dipendenze da Social Network – Forgiare il proprio Sè nella rete“).

Con esso si indica la tendenza dei giovani ragazzi giapponesi, specialmente maschi e con un contesto socio-economico tendenzialmente elevato, senza situazioni familiari particolari come separazioni o divorzi, a ritirarsi dal mondo esterno rifugiandosi nelle loro stanze.

Questi ragazzi, descritti generalmente come timidi e schivi e molto spesso etichettati come pigri, possono vivere rinchiusi anche per anni, senza alcun contatto sociale reale, ad eccezione, quando hikikomori si verifica mentre il giovane vive ancora in casa dei genitori, di qualche “comunicazione di servizio” con la madre, generalmente riguardo i pasti, che comunque vengono consumati nella totale solitudine della loro stanza.

Se i contatti reali si abbassano sfiorando lo zero, quelli virtuali ed immaginari, fruiti attraverso l’utilizzo di internet si alzano notevolmente: internet, infatti, rimane l’unico mezzo di comunicazione con gli altri. Ciò però non è esente da rischi.

Sembrerebbe che questo fenomeno, che in Giappone conta più di un milione di casi, da una decina d’anni si sia diffuso anche tra i giovani italiani. L’attuale stima italiana, infatti, andrebbe dai 60.000 ai 100.000 casi circa.

Tuttavia, sembrerebbe che tale fenomeno abbia un significato diverso tra Giappone e Italia: in Giappone esso sarebbe maggiormente associato alla pressione della società Giapponese nei confronti dei ragazzi maschi, verso i quali vi sono altissime aspettative, sopratutto correlate al successo scolastico e professionale.

In Italia, invece, secondo Pietropolli Charmet (2013), sembrerebbe che tale forma di ritiro possa considerarsi come una sorta di attacco al corpo, vissuto come troppo brutto e rispetto al quale gli sguardi dei coetanei -sopratutto quelli dei compagni di classe- vengono vissuti come intollerabili. 

Giappone ed Italia, comunque, presentano qualche punto in comune: sovente, infatti, il primo ritiro che i ragazzi compiono è proprio quello da scuola, ovvero dal contesto più frequentato dai loro coetanei, cui segue un progressivo ritiro dal resto delle occasioni e dei contatti sociali. 

In Italia, come sopracitato, sembrerebbe che ciò derivi dal fatto di vivere come brutta la propria esteriorità (confusa poi con una “bruttezza della mente”), il proprio corpo, caratteristica che non permetterebbe un’adeguata capacità di star seduti ogni giorno per 5 o 6 ore in classe, sotto l’occhio giudicante e sentenziale dei compagni e che andrebbe a compromettere anche le capacità sociali dei ragazzi.

Se prendiamo poi in considerazione anche la cultura della bellezza pubblicizzata in ogni istante dai nostri mass media, i quali idealizzano, ad esempio, modelli di magrezza spesso praticamente impossibili da emulare e realizzare, trasmettendo l’idea che tali canoni siano i soli necessari per avere successo in ambito sentimentale ma anche professionale, al ragazzo, schiacciato da tale pressione sociale, non resta altro che ritirarsi da tale “passerella” in cui si è involontariamente trovato, rinchiudendosi nella sicurezza e nella protezione della sua cameretta.

E, nella solitudine di essa, potrà scoprire come sia semplice e “liberatorio” essere finalmente se stesso dialogando con il mondo esterno attraverso i social network od altri canali di comunicazione come i forum, le community o i giochi di ruolo online, luoghi dove a volte trova anche appagamento il suo desiderio di essere amato, desiderato e apprezzato e grazie ai quali la sofferenza per la propria bruttezza percepita è finalmente messa a tacere.

Ma quali conseguenze può avere un tale utilizzo della rete?

Se hikikomori di fatto non è una psicopatologia, certamente può fungere da catalizzatore di essa e il rischio di sviluppare una dipendenza da internet o da videogiochi è, con molta probabilità, dietro l’angolo. Non è infrequente, infatti, che tali ragazzi presentino uno sfasamento dei ritmi circadiani, invertendo il giorno con la notte, visti rispettivamente come momento in cui dormire e momento in cui, invece, dedicarsi alle attività online.

Un altro rischio, inoltre, sovente rilevato in Giappone, è quello dello sviluppo di violenza domestica perpetrata dal figlio “ritirato” nei confronti della madre, che a volte diviene a tutti gli effetti una schiava del ragazzo in hikikomori, e alla cui base si pensa esserci una profonda tristezza e senso di colpa -derivanti dal desiderio di punire e vendicarsi- nei confronti dei famigliari, ritenuti i responsabili della situazione di hikikomori.

Cosa si può fare, quindi? 

Hikikomori è un fenomeno che porta con sé un profondo senso di vergogna per i ragazzi e le famiglie, ma è importante cercare di non farsi sopraffare da esso, chiedendo aiuto. In Giappone, infatti, numerosi sono gli Istituti di riabilitazione sorti e fondati ad hoc per hikikomori, i quali negli anni hanno dato i loro (buoni) frutti.

In Italia, come suddetto, lo studio (e quindi il trattamento) del fenomeno è ancora giovane.

E’ utile, comunque, informarsi sul fenomeno e chiedere aiuto, avvalendosi anche di professionisti psicologi eroganti prestazioni domiciliari, che tentino di stabilire una prima relazione con il ragazzo, senza però farlo sentire anomalo o sotto osservazione e senza approcci forzati, ricordandosi che gentilezza, fiducia, pazienza e molto tempo trascorso assieme sono indispensabili, oltre che il giovane in hikikomori “non sa descrivere il suo stato non conosce linguaggio per nominare la sua sofferenza” (Ricci, 2008, pp. 13). 

Molto frequenti tra i ragazzi in hikikomori, sono il desiderio di morte ed un piano di suicidio, almeno in Giappone, dove tali aspetti sono presenti nel 46% dei casi circa. Carla Ricci (2008), tuttavia, precisa: “in realtà anche se esiste il progetto, il suicidio non viene quasi mai realizzato: il ragazzo in hikikomori vuole vivere, ma non sa come” (Ricci, 2008, pp. 32).

Importantissima risulta inoltre la prevenzione e, secondo me, la funzione degli insegnanti e della scuola, dato che essa è, in genere, il primo luogo da cui avviene il ritiro. E’ inoltre da chiedersi, a mio avviso, se tale fenomeno non sia da includere nei Bisogni Educativi Speciali, dato anche il suo spesso derivare da atti di bullismo, oramai sempre più frequenti tra compagni di scuola grazie alle possibilità offerte dai social network, il tutto accompagnato da sentimenti di solitudine e isolamento.

In conclusione, quindi, il fenomeno hikikomori non va inteso come una malattia ma come una situazione che la può produrre. Le situazioni cliniche più frequenti si rifanno a quadri ossessivi, ansiosi e fobici, depressivi, di dipendenza e in alcuni casi più rari, ad esordi psicotici.

Se volete avere una prima idea del fenomeno, vi consiglio la visione dell’Anime “Welcome to the NHK” reperibile su YouTube.

Dott.ssa Giorgia Salvagno

Psicologa e ipnologa a Venezia

Per approfondire:

Pietropolli Charmet G. (2013), La paura di essere brutti. Milano: Raffello Cortina Editore;

Ricci C. (2008), Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. Milano: Franco Angeli Editore;

Spiniello R., Piotti A., Comazzi D. (2015), Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer. Milano: Franco Angeli Editore. 

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