Transfert e Controtransfert. Microcosmi di proiezioni

Sai … a volte penso che permetti ai tuoi pazienti di coinvolgerti davvero troppo.” “E’ l’unico modo che conosco per guarirli”

(Dal film “Prendimi l’anima”, 2002)

Cosa avviene in quella stanza? Ci sarà il lettino?  Sarà simpatico/a? Accogliente? E’ meglio scegliere un uomo o una donna?” Queste sono le domande, le perplessità, le fantasie più comuni che possono balenare nella mente dei futuri pazienti di fronte alla scelta del terapeuta o semplicemente prima della seduta iniziale, forse la prima di un lungo percorso.

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La fiaba di Barbablù. La libertà di decidere

“Un uomo burbero e dalla lunga barba color blu cerca moglie. Decide di corteggiare tre sorelle: due lo rifiutano per via del suo aspetto fisico, mentre la terza, nonostante sia diffidente, si lascia convincere dalle ricchezze e dall’apparente gentilezza dell’uomo. Accetta dunque di sposarlo diventando padrona del suo immenso castello e dei suoi tesori.

Prima di partire per un viaggio, Barbablù lascia alla moglie un enorme mazzo di chiavi esortandola a godere di tutte le bellezze presenti nel castello di cui lei è regina. Le dice che può visitare ogni stanza della casa tranne una, dalla quale deve tenersi lontana e dove non può assolutamente entrare. La moglie, dopo aver invitato le sorelle, incuriosita dal divieto posto dal marito, decide di mettersi alla ricerca della stanza proibita e di aprirla. Al suo interno trova le precedenti mogli di Barbablù morte. Come lei avevano disubbidito all’ordine del marito e per questo erano state uccise.Le tre sorelle richiudono immediatamente la porta cercando di mantenere il segreto ma, in quel momento, la chiave che era servita ad aprire la stanza, inizia a sanguinare senza smettere. Al suo ritorno, Barbablù scopre subito l’accaduto e si prepara a uccidere la giovane moglie disubbidiente. Ella, però, riesce a prendere tempo con la scusa di un’ultima preghiera durante la quale, telepaticamente, fa accorrere i fratelli. Una volta arrivati riescono a salvare la sorella uccidendo Barbablù.”

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Elogio della lentezza. Rallentare come atto rivoluzionario e benfico

Viviamo in una società che ci propina giochi televisivi dove anche cucinare un piatto diventa una lotta contro il tempo; una società che ci invita a mettere da parte i sentimenti, o perlomeno che non ci permette di dedicargli il giusto tempo; una società dove i “piu bravi” sono quelli che irrefrenabilmente producono.

E se invece tornassimo a godere della bellezza del preparare un piatto con il giusto tempo, se ci dedicassimo alle relazioni con la giusta intensità, se ci prendessimo il tempo che serve per pensare, per costruire, per progettare; se rallentassimo, verremmo considerati dei rivoluzionari?

Decidendo di raggiungere un determinato luogo a piedi, rinunciando alla comodità, alla velocità e all’immediatezza di uno spostamento con la macchina o con altri mezzi, quantomeno verremmo considerati “strani”. Ma quanto il nostro corpo e la nostra mente gioverebbero di questa scelta?

Avremmo molte più possibilità di sviluppare la nostra socialità, il nostro fisico riscoprirebbe un’attività ormai quasi andata perduta e i nostri pensieri sarebbero maggiormente liberi di fluire.

Avevo ormai percorso quasi 700 km ed ero a pochi giorni da Santiago; erano state tre settimane fantastiche, mi sentivo vivo come non mai. Pensai di continuare il mio cammino fino all’Oceano, ma sapevo che per farlo avrei dovuto rispettare determinati ritmi, in modo da essere di ritorno a Santiago in tempo per il volo che mi avrebbe riportato a casa. Arrivò una forte perturbazione metereologica che mi costrinse ad accorciare una tappa prima, e a dimezzarne una il giorno seguente a causa della grandine. Il senso di benessere che mi aveva accompagnato per tutti quei giorni era svanito,mi sentivo agitato e nervoso, non accettavo l’idea di dover rinunciare al programma che mi ero prefissato. Il giorno seguente, camminando, probabilmente con un passo più lento del solito, capii che tutto il giovamento di cui avevo goduto fino a quel momento era stato proprio dovuto al fatto che avevo vissuto ogni istante ed ogni cosa con il giusto tempo, senza forzature o imposizioni di ritmi frenetici. In quegli ultimi giorni rallentai, assaporai ancora meglio tutto quello che mi circondava; capii che quella mia voglia di accellerare e arrivare era soltanto voglia di scappare via il prima possibile dalla tristezza che la fine di quell’esperienza avrebbe inevitabilmente portato. Rallentai, imparai ad affrontare quel sentimento che tanto volevo evitare e di cui tanto avevo paura. Arrivai a Santiago felice, vivo nel senso più ampio del termine; mi tolsi le scarpe e capii che dovevo arrivare li in quel momento.

                                                                                                                                                  Un pellegrino della via francese per Santiago

A volte accettiamo gli attuali ritmi frenetici proprio per sfuggire a problemi o pensieri che ci perseguitano; preferiamo intasare le nostre agende piuttosto che rallentare ed affrontare le nostre vere preoccupazioni. Un po’ questi ritmi esagerati ci fanno comodo!

“In questo viaggio che è iniziato quando ho voluto avere un nome ho imparato tante cose. Ho imparato l’importanza della lentezza e, adesso, ho imparato che il Paese del Dente di Leone, a forza di desiderarlo, era dentro di noi”.

                                                                                                                                                                                          Luis Sepulveda

Lo scrittore cileno Sepulveda, nella sua favola per adulti e bambini, “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”, ci invita a pensare quanto conformarsi automaticamente ai canoni e ai ritmi societari possa portare all’apatia, alla “morte cerebrale” e non solo.

Ogni cosa ha un suo tempo, un tempo stabilito che permette che questa stessa cosa riesca nel modo giusto. E questo vale per tutto, sia che si parli di produzione materiale, sia che si parli di costruire relazioni o di elaborazione di emozioni e pensieri.

Pensiamo a quante volte abbiamo gettato oggetti, anche solo con qualche leggera imperfezione, semplicemente perchè è più sbrigativo comprarne altri, piuttosto che spendere tempo per riparare quelli già utilizzati; oppure a quante volte abbiamo perso l’occasione di vivere una relazione perchè non avevamo abbastanza tempo da dedicare all’altro, eravamo troppo presi dal nostro correre.

Ogni cosa ha bisogno del suo tempo, e noi spesso non glielo concediamo, non ce lo concediamo.

Anche Piero Pelù, famoso cantautore fiorentino, cofondatore del gruppo rock “Litfiba” in passato ha dedicato una canzone alla lentezza.

E puoi volare, su questo mare

Su un guscio di noce, che è la tua fragilità

Lo puoi capire

Fallo senza fretta
E prenditi il tempo perché la tua lentezza
È l’equilibrio per restare in piedi

Lento
Tempo

 

In questa parte di testo mi ha colpito molto l’associazione tra la lentezza, intesa come proprio ritmo personale, e l’equilibrio.

In effetti, se utilizzassimo un andamento troppo veloce, potremmo ad un certo punto sentirci smarriti e disorientati; se invece il nostro andare seguisse un ritmo eccessivamente basso, ci sentiremmo frustrati e ansiosi probabilmente. Soltanto rispettando noi stessi e la “nostra lentezza” potremmo sentirci in equilibrio.

Analizzando l’argomento da un punto di vista più strettamente scientifico, scopriamo che l’andamento lento e la camminata hanno comprovati benefici fisico-sociali e proprio per questo alcune Asl, inizialmente del nord Italia, ma ora anche del centro-sud, hanno iniziato ad organizzare gruppi di cammino. Questi rappresentano un’importante opportunità di salute e di socializzazione proposta alla comunità. Il camminare oggi risulta uno strumento preventivo e ricreativo di benessere, sia dal punto di vista fisico che sociale.

I gruppi si incontrano in un determinato luogo, che può essere un parco, ma anche un qualsiasi angolo del quartiere e seguono il percorso proposto dal Team leader, che inizialmente è una persona selezionata dai Servizi, ma poi può essere tranquillamente sostituita da un membro del gruppo stesso.

Questi gruppi permettono di vivere un momento al di fuori del contesto frenetico della quotidianità, lasciando ai partecipanti la possibilità di conoscere meglio loro stessi e gli altri, tenendo in attività corpo e mente.

La lentezza è una variabile del tempo. La distanza di sei chilometri, coperta in un’ora da un buon passo non è lenta, è giusta. Oggi una lentezza di apprendimento è considerata un ritardo e la contemplazione un disturbo del comportamento. “Il tempo è denaro” scrisse in un saggio l’inglese Francis Bacon, nel 1597, inaugurando l’identità a scopi commerciali. Ma il tempo non si calcola in spiccioli e spesso rimborsa largamente chi lo sta perdendo

                                                                                                                                                                                          Erri De Luca

Lamberto Maffei, ex direttore dell’Istituto di neuroscienza del Cnr, nel suo “Elogio della lentezza” ci spiega che il cervello che regola i nostri comportamenti ci è stato donato proprio come una macchina lenta, che ha bisogno dei suoi tempi e di una sequenza nella sua azione. Noi invece facciamo il contrario, e viviamo nell’incubo della lentezza che associamo alla perdita di tempo, o peggio, a una menomazione fisica e mentale.

Maffei scrive che:«Il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione» – «La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti digitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile».
Da qui la rivalutazione della lentezza come terapia contro lo stress moderno, dove tutto viene comunicato in tempi rapidissimi attraverso social, e-mail o sms; la ricerca di una comunicazione diretta, sfruttando una fila in un supermercato o ad uno sportello pubblico per fare una nuova conoscienza o per ascoltare una storia, leggere un libro, senza cedere alla frustrazione per il tempo “perso”.
Solo questo ritmo, non sottoposto alla pressione di continui strappi, porta ad una buona socialità e ad una vera ricerca di conoscenza.
 

Spesso la lentezza viene associata alla staticità, con un’accezione prevalentemente negativa, ma non sempre un andamento adagio comporta una situazione di stallo, di immobilità. La lentezza può essere estremamente dinamica e generare ciò che spesso invece consideriamo impossibile.

Rallentare non è semplice, anzi, ma abbiamo il dovere di provarci. Ci permetterebbe di riacquisire una centratezza magari persa, di elaborare pensieri e nuove idee in maniera proficua; ci permetterebbe di vivere le relazioni, di qualunque genere, in modo pieno e appagante.

Dott. Diego Bonifazi

Assistente Sociale a Roma

(+39) 3296614580

diego.bonifazi@yahoo.it

Per Approfondire:

Lamberto Maffei – Elogio della lentezza Il Mulino Editore, 2014

Luis Sepulveda – Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza Guanda Editore, 2013

Carl Honore – …E vinse la tartaruga Rizzoli Editore, 2008

Piero Pelù – Lentezza

Relazione fra Migrante e Operatore. La Confusione Come Sintomo

(dalla “tenerezza” di Ferenczi all’amore “riparativo” del migrante)
 

Confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce” –  Henry Miller

Nel Settembre del 1932 lo psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi presentò al XII° Congresso Internazionale della Associazione Psicoanalitica, che si tenne a Wiesbaden, una relazione dal titolo: “Confusione delle lingue tra adulti e bambini (Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione).

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Rapporto madre figlio. Legame di vita

“Il contatto “pelle a pelle”, innesca nella mamma e nel neonato reazioni intime e forti, che pongono le basi del loro innamoramento. 

È un momento prezioso di intimità e di contatto profondo, che sancisce il passaggio dal rapporto di fusione che caratterizza la gravidanza ad una nuova forma di unione… potente e indissolubile.”
(Giulia Lino)

La comunicazione madre-figlio comincia sin dai primissimi giorni di vita, portando avanti quella  relazione già iniziata nel grembo materno durante la gravidanza.

La madre si prende cura del proprio bambino ed il modo in cui lo guarda, il tono della sua voce, il modo in cui lo tiene in braccio, forniscono al bambino esperienze di rilevante importanza in quanto trasmettono informazioni che riguardano lo stato emotivo ed affettivo della madre e dunque i sentimenti che nutre per lui. La madre gli trasmette amore ed in maniera del tutto naturale ed istintiva parla al proprio figlio, anche se a livello cognitivo egli non può ancora comprendere il messaggio.

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L’amico del cuore. Identità in adolescenza

Si parla spesso di rapporti di amicizia fusionali e problematici nella loro ambivalenza in adolescenza, eppure a volte l’amico può rappresentare davvero una risorsa a quest’età. Nell’amico si cerca qualcosa, s’investe di affetto una persona non solo per il rispetto e la condivisione ma anche perché i suoi tratti e il suo esserci hanno una funzione importante per noi: a volte colmano un vuoto, ci rispecchiano o assomigliano a una parte di noi. Durante l’adolescenza si sperimenta un contatto particolare con il proprio desiderio che inizia a pulsare e a muoversi in molteplici direzioni. Il senso di smarrimento che si prova dipende dal sentimento di non appartenenza alla cultura famigliare di origine e al bambino che si era e che aveva un posto ben preciso. Le amicizie in queste fasi esistenziali vengono vissute intensamente e gli adolescenti condividono esperienze profonde di ricerca della propria identità dove ci si fa da specchio e si sperimentano emozioni forti.

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L’angoscia del cambiamento. Immergersi nell’indefinito

Più di una volta nella nostra vita abbiamo dovuto affrontare dei cambiamenti importanti, e, talvolta, a subirne le conseguenze. In realtà ogni aspetto della nostra esistenza è costellato da continui cambiamenti, ma l’idea di rimanere fedeli a se stessi e alla propria progettualità di vita, qualora ce ne fosse una, ci porta ad illuderci di poter controllare ogni cosa di sé stessi, compreso il futuro. Il cambiamento porta con sé la perdita di parti di sé, per fare spazio ad altro, a nuovi parti di sé, ancora in fase embrionale ( per un maggior approfindimento si rimanda all’articolo La paura del cambiamento – la spinta vitale dell’instabilità). Questa fase, molto critica, è una vera e propria fase di passaggio, dove l’individuo sente di non poter essere più A, ma sente ancora di non poter essere B, e allora, cos’è?

Ci ritroviamo in una sensazione di non essere ne A e ne B, all’interno di un bosco oscuro dove ci si sente sperduti, perché l’ignoto ed il nuovo vengono percepite come essenze minacciose, come entità interne sui quali non sappiamo se poterci affidare o meno e talvolta, nei sogni, vengono raffigurati come bambini, neonati, o bambole minacciosi e terrificanti.

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Alice e lo Stregatto. Saper prendere una decisione

“Stregatto, […] potresti dirmi, per favore, quale strada devo prendere per uscire da qui?”
“Tutto dipende da dove vuoi andare,” disse il Gatto.
“Non mi importa molto…” disse Alice.
“Allora non importa quale via sceglierai,” disse il Gatto.
“…basta che arrivi da qualche parte,” aggiunse Alice come spiegazione.
“Oh, di sicuro lo farai,” disse il Gatto, “se solo camminerai abbastanza a lungo.”
Alice sentì che tale affermazione non poteva essere contraddetta, così provò con un’altra domanda: “Che tipo di gente abita da queste parti?”
“In quella direzione,” disse il gatto, agitando la sua zampa destra, “vive un Cappellaio: e in quella direzione,” agitando l’altra zampa, “vive una Lepre Marzolina. Visita quello che preferisci: tanto sono entrambi matti.”
“Ma io non voglio andare in mezzo ai matti,” si lamentò Alice.
“Oh, non hai altra scelta,” disse il Gatto: “qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.”
“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.
“Devi esserlo,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qua.”
Alice non pensava che questo bastasse a dimostrarlo; ad ogni modo, andò avanti “E come sai di essere matto?”
“Per iniziare,” disse il Gatto, “un cane non è matto. Concordi?”
“Immagino sia così,” disse Alice.
“Bene, allora,” il Gatto andò avanti, “vedi, un cane ringhia quando è arrabbiato, e scodinzola quando è felice. Io ringhio quando sono felice, e agito la coda quando sono arrabbiato. Quindi sono matto.”
“Io lo chiamo fare le fusa, non ringhiare,” disse Alice.
“Chiamalo come preferisci,” disse il Gatto […]

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Memoria somatica. partire dal corpo per elaborare il trauma

Egon Schiele, Nudo maschile con fascia rossa che cinge i fianchi, acquarello, 1914, Grafische Sammlung Albertina, Vienna

Che cos’è il trauma? Per Freud con l’espressione “traumatico” noi designamo un’esperienza che in breve tempo fornisce troppi stimoli alla vita psichica, e per tale condizione la sua elaborazione non riesce, portando a “disturbi permanenti nell’economia della psiche”. Secondo la teoria freudiana il trauma rivestiva un ruolo causale in molte patologie psichiche (per approfondire “Ricordi in lista d’attesa“; ““Emdr trauma e cervello” ; “Al di la del trauma).

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Il masochista morale. Un dolore oggi per una “vana” speranza domani

Nel gergo comune, quando si parla di persone masochiste, inevitabilmente nella nostra mente appare l’immagine di persone che si mostrano autodistruttive e che tendono a farsi del male, soprattuto sotto il punto di vista psicologico e di abbassamento dunque della qualità della vita, ma senza l’intento di arrivare ad un’azione suicidaria. Sicuramente possiamo parlare di masochismo a più livelli, partendo da coloro che vivono una sorta di dipendenza rispetto ad una situazione che li fa soffrire, fino ad arrivare a coloro che praticano l’automutilazione, dove sembra quasi che la sofferenza fisica possa in qualche modo alleviare un dolore più squisitamente emotivo. (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La personalità masochista – Una vita di lamenti” )

In maniera molto lineare tendiamo a pensare che le persone che hanno un comportamento masochista siano persone che provano piacere nel farsi del male. La McWilliams, psicologa e psicoanalista, ci fa notare però che il termine masochismo, quando viene utilizzato dagli psicoanalisti, non significa amore per il dolore e la sofferenza, piuttosto, precisa che la persona che si comporta in modo masochistico, tollera il dolore e la sofferenza nella speranza, cosciente o inconscia, di ottenere qualche bene maggiore.

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