Si è soliti dire che il diritto attiene al “dover essere” mentre la psicologia riguarda “L’essere”. Le due discipline tuttavia, occupandosi in generale dei comportamenti umani, si intrecciano spesso e si nutrono a vicenda.
Nel processo penale, la testimonianza è un mezzo di prova fondamentale per portare all’attenzione del giudice quegli elementi conoscitivi che gli serviranno per fondare una valutazione di innocenza o colpevolezza dell’imputato. Molto spesso, infatti, la ricostruzione in giudizio di un fatto è possibile solo grazie alle dichiarazioni delle persone che erano presenti al momento dell’accaduto.
“Sai un giorno, mentre soccorrevo una bambina, l ho associata a mia nipote, e questo mi ha limitato, quasi bloccato nelle procedure da mettere in pratica”. Questa frase mi è stata riferita da un medico, dopo che avevo fatto un intervento sulla gestione delle emergenze durante un convegno. Mi ha colpita molto perché in maniera sottile c’è stato il riconoscimento della componente emotiva, che spesso dai medici viene separata dall’aspetto prettamente corporeo. Le emozioni hanno influito, seppur in maniera silenziosa, sull’azione e quindi sull’intervento di questo medico. “Hai trovato uno spazio congruo per rielaborare o quanto meno per dare un significato a tutto questo?”, ho domandato al medico. Mi ha risposto che no, non c’è stata una finestra spazio-temporale per poter rimettere insieme i pezzi dell’evento, seppure il suo livello di consapevolezza rispetto a questo si è rivelato piuttosto elevato, riuscendo a gestire il post-emergenza anche da un punto di vista psicologico. Purtroppo ciò che è accaduto al giovane medico è molto frequente: dopo situazioni di emergenza in cui il medico deve fare i conti con catastrofi naturali o uccisioni non ci sono spazi in cui ci si prenda cura del vissuto emotivo, superstite ferito e malandato. Questo è importante sia per le vittime dell’evento in questione ma anche per i soccorritori stessi, anch’essi portatori e sperimentatori di vissuti emotivi.
Un tema molto dibattuto nel sociale negli ultimi mesi è sicuramente quello del “Dopo di noi”, ovvero quella porzione di vita che una persona con una disabilità deve affrontare senza il sostegno dei propri familiari, perchè deceduti o impossibilitati nel fornirlo. Con questo articolo cerchiamo di rendere un po’ più chiaro di cosa si tratta.
Fu Freud, in una lettera del 1909, destinata a Jung, a definire per la prima volta il concetto di controtransfert, in tedesco “Gegenübertragung”. Questo complesso fenomeno venne descritto come una controtraslazione, che insorge nel clinico su influsso del paziente, sui suoi sentimenti inconsci. Secondo Freud l’origine del controtransfert era rintracciabile in conflitti inconsci non risolti. In sostanza una zona grigia, non elaborata nel corso della terapia personale del clinico. Quindi qualcosa di scomodo, dannoso ai fini del lavoro analitico. Soltanto dagli anni cinquanta in poi, con il lavoro clinico e teorico di autori quali Paula Heimann, e Heinrich Racker, il controtransfert assume una funzione utile e inevitabile nel lavoro clinico. Emerge l’importanza di non difendersi dai sentimenti provati nei confronti dei pazienti. (Per approfondire si rimanda all’articolo “Transfert e Controtransfert – Microcosmi di proiezioni” e “Nella stanza d’analisi – La svolta di un agito”della rivista).
“Questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste. Annullato, in misura direttamente proporzionale alla sua esposizione”.
Daniel Pennac, Storia di un corpo
Viviamo in una società in cui il sentimento di sé si sta espandendo oltre i confini che ci erano già noti: questo sconfinamento alimenta un bisogno di visibilità sociale che porta spesso a forme di esibizionismo mediatico che favoriscono una sopravvalutazione del proprio essere persona. Per soddisfare questa aspirazione di visibilità, il singolo individuo ricorre ai social media e diffonde attraverso Internet i propri contenuti di testo, le proprie immagini o video. Il Web è diventato per tutti un amplificatore gratuito di contenuti personali e uno strumento per guadagnare notorietà a buon mercato.
“La principessa Merida è tutta suo padre e poco sua madre. Coraggiosa, audace e insofferente alle regole di corte preferisce cavalcare e tirare con l’arco piuttosto che sedere a tavola composta o curare i suoi immensi capelli rossi. Costretta a sposare uno tra i pretendenti che si scontrano per la sua mano decide di sovvertire le regole: la principessa decide di combattere e scontrarsi in duello con gli altri principi per ottenere la propria mano. Decidendo di rinnegare la tradizioni scatena e subisce la conseguente ira materna.
“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. -Arthur Schopenhauer-
Fino alla prima metà del Novecento il neonato era ritenuto semplicemente un piccolo uomo non ancora in grado di parlare, pensare e addirittura insensibile al dolore infatti in chirurgia infantile si era soliti operare senza alcun anestetico.
In ambito medico, in particolare pediatrico e ostetrico dunque le cure conferite ai bambini molto piccoli riguardavano unicamente l’aspetto biologico mentre gli aspetti sociali, psicologici e pedagogici erano gestiti solo ed unicamente dalla figura di accudimento primaria avente una propria tradizione rispetto alla comunità di appartenenza.
Il neonato era visto anche dagli psicologi di quell’epoca come una tabula rasa, lo stesso James riteneva che solo in seguito ad un’adeguata maturazione neurologica il piccolo potesse iniziare a riuscire a sviluppare la mente con tutte le sue molteplici funzioni.
La festività del natale, come molte festività connotate religiosamente, deriva in realtà da una consuetudine pagana risalente al 273 dopo Cristo, il “sol invictus”, letteralmente il sole non vinto. Collocata a ridosso del solstizio d’inverno (il 21 dicembre) sancisce infatti la fine delle tenebre e la vittoria della luce sull’ombra: il sole ricomincia il suo ciclo e le giornate iniziano ad allungarsi (la tradizione vuole che tocchi il picco il 13 Dicembre, la giornata dedicata a santa Lucia, “il giorno più corto che ci sia”).
La vittoria delle luce sulle tenebre è stata rappresentata dalla tradizione cristiana con la nascita del figlio di Dio. Qui ha origine la tradizione del presepe, la riproduzione della scena della natalità oggi rappresentata “in tutte le salse” e meta di pellegrinaggi in comitiva durante le feste.
Durante il mio viaggio in Myanmar mi è capitato spesso di pensare alla felicità che traspare dai volti delle persone locali, nonostante apparentemente spesso vivano in condizioni di estrema povertà. Un giorno poi, parlando con la guida di un percorso di trekking a proposito dell’Agave, una pianta che cresce principalmente in centro america, ma che è molto presente anche in Myanmar, un ragazzo le suggerisce di utilizzarla per preparare la tequila e che sicuramente può trovare la ricetta in rete. La risposta della ragazza che ci stava accompagnando in quei due giorni è stata allo stesso tempo semplice e illuminante. “Perchè dovrei cercare la ricetta in rete? Perchè devo fare la tequila? Non mi serve!”
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