“Lo sport consiste nel delegare al corpo alcune delle più elevate virtù dell’animo” (Jean Giraudoux) ma, bisogna aggiungere, perché questo accada, il Corpo deve essere in salute e la Mente in armonia.
Sappiamo ormai della profonda connessione tra corpo e mente e della necessità di considerare il benessere come un continuo bilanciamento tra esigenze psicologiche e somatiche. Nello Sport questa ricerca di Equilibrio dovrebbe essere centrale e prioritaria ma, sia nei settori educativi che in quelli professionistici, purtroppo non è sempre facile perseguirla.
Donna con mani incrociate, vista di schiena- Egon Schiele
Egon Schiele, pittore austriaco vissuto agli inizi del Novecento, racconta la poetica sottesa alle proprie opere attraverso la rappresentazione del corpo; dipinto come torbido, caotico, espressione di desiderio e di caducità della vita. Attraverso forme scomposte e incerte descrive il movimento dinamico di un corpo, contenitore di un’interiorità tormentata, la cui unica pretesa risulta essere l’esistere. Un’ esistenza senza spazio e senza tempo, le ambientazioni sfumano, l’età dei soggetti appare secondaria. Il corpo in questo senso sembra essere il veicolo di qualcosa di inespresso, che trova difficilmente rivelazione mediante la parola. Ciò però non lo rende privo del significato più profondo che custodisce; nel coacervo di emozioni e sensazioni, che tali raffigurazioni suggestionano nello spettatore, domina il senso di ineffabilità circa un nucleo emotivo magmatico. La rappresentazione del corpo in tale paradigma artistico, può rimandare a quello che nel campo psicologico risulta essere un corpo trascurato all’interno delle relazioni primarie e che si fa, per questo, emblema di tutte le sue contraddizioni affettive.
“Si dice che la perfezione è nemica del bene, che chi tende alla perfezione rischia di perdere di vista quello che ha di buono. Io però non ero d’accordo. Bene non mi bastava. Bene significa mediocre. E io non volevo accontentarmi della mediocrità” dal libro Affamata di Melissa Broder.
L’immagine corporea e la sua relativa insoddisfazione da parte degli individui è considerato un tema centrale con innumerevoli risvolti e ripercussioni per due gruppi di psicopatologie; la DISFORIA DI GENERE E I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE ( a cui, da ora, si farà riferimento usando rispettivamente gli acronimi di DG e DCA).
Nell’anoressia il cibo rappresenta un condensato di metafore, simboli patologici in cui trovano espressione vuoti affettivi, esperienze traumatiche, introietti persecutori, oggetti parziali non integrati.
La metafora principalmente sottesa al rifiuto del cibo è l’esteriorizzazione di un bisogno orale inappagato. Una pulsione nutritivo-affettiva che, pur ripetutamente avanzata, non ha trovato gratificazione. Ostaggio di un risentimento narcisistico, quasi di una sorta di vendetta, l’anoressica respinge un nutrimento che a sua volta l’ha respinta ma del quale ha tremendamente bisogno, e il conflitto tra introiezione e rifiuto che si attiva durante il pasto svela l’origine di questo dolore: un rapporto altrettanto conflittuale con l’oggetto materno ( Bruch, 2003; 1996).
Come è risaputo, l’immagine corporea o meglio la grande attenzione verso questo aspetto e le relative implicazioni, è uno degli aspetti più importanti che si devono prendere in considerazione quando si ha che fare con un disturbo alimentare.
Lo sviluppo dell’immagine corporea dipende da fattori biologici, ma anche dall’influenza della famiglia, delle figure di riferimento, del gruppo dei pari, dei media, della società e delle culture in cui ciascuno vive.
Lo psicoanalista britannico Donald Winnicott riteneva che alla base dei disturbi alimentari ci fosse una sofferenza psichica legata ad un vuoto generato dal non sentirsi amati altresì dal dubbio che si forma dall’incostanza genitoriale e dalla possibilità di accedere all’oggetto d’amore; fenomeno intrapsichico riconducibile alle prime esperienze relazionali, ovvero le primordiali relazioni d’affetto le quali vengono interiorizzate ed estese lungo il percorso di vita. Dunque il senso di ambiguità può essere riscontrato nelle relazioni intime.
La stressoressia è un disturbo alimentare, di origine piuttosto recente, che ha ad oggetto un’errata gestione della nutrizione quotidiana causata da vissuti stressogeni e ansietà. La matrice patologica di questo disturbo è influenzata da un’incrementata dimensione di perfezionismo e ansia da prestazione che spinge a percepire il compimento del proprio dovere come una priorità da anteporre a qualsiasi altro bisogno, ivi compresi quelli fisiologici, come il nutrimento. Con conseguenze talvolta anche gravi.
Abbuffate e condotte compensatorie, 1 volta alla settimana negli ultimi tre mesi.
Per uno studente di psicologia che si approccia ad un esame di psicopatologia o di clinica psichiatrica potrebbero bastare queste banali e spoglie parole per configurare, almeno schematicamente, il quadro della Bulimia Nervosa (per un ulteriore approfondimento si rimanda all’articolo Bulimia Nervosa- una fame da Bue). In realtà la dimensione esperenziale e il vissuto delle persone che ne soffrono viaggiano su itinerari ben più complessi e tortuosi, non sempre agili da percorrere.
“Preferisco cenare da sola. Sto bene con la mia famiglia, ma quando mangiamo no, non riesco. Non riesco a guardarli mentre muovono la bocca e emettono quei rumori così fastidiosi. Ogni volta che sono a tavola con loro devo sbrigarmi a finire e cercare una scusa per alzarmi prima che tutti abbiano finito, altrimenti non smetto mai di mangiare, tutto il tempo, per attutire i loro rumori con i miei… Perché lo fanno? Perché non capiscono e non si impegnano a mangiare meglio? Mi innervosiscono così tanto, vorrei sgridarli e a volte menarli.”
“Da qualche anno vado al cinema solo se prenoto i biglietti online. Posso guardare un film serenamente solo in ultima fila, non posso avere persone dietro di me. Odio chi mangia i pop-corn e se sento quel rumore provenire dai posti dietro, impazzisco. La gente è menefreghista, non pensa di poter disturbare, se ne frega e a me questo proprio non va giù!”
Guardando al passato, quando ci si accostava al termine anoressia (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “L’anoressia – Dallo svezzamento al rifiuto del cibo”), l’associazione quasi scontata era all’età adolescenziale, intesa come la fase ma anche come “il luogo”, entro cui il disturbo finiva con il convogliarsi massimamente. Di contro, l’osservazione clinica odierna, pur suggerendoci di mantenere ugualmente la guardia alta visto il delicato momento di transizione che l’adolescenza delineerebbe, quasi c’impone di spostare parecchio all’indietro l’esordio di quella che oggi si pone come una delle patologie più gravi e complesse del nostro tempo.
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