Cibo, metafore e anoressia
Il cibo come metafora patologica nell’anoressia nervosa

Nell’anoressia il cibo rappresenta  un condensato di metafore, simboli patologici in cui trovano espressione vuoti affettivi, esperienze traumatiche, introietti persecutori, oggetti parziali non integrati. 

La metafora principalmente  sottesa al rifiuto del cibo è l’esteriorizzazione di un bisogno orale inappagato. Una pulsione nutritivo-affettiva che, pur ripetutamente avanzata, non ha trovato gratificazione. Ostaggio di un risentimento narcisistico, quasi di una sorta di vendetta, l’anoressica respinge un nutrimento che a sua volta l’ha respinta ma del quale ha tremendamente bisogno, e il conflitto tra introiezione e rifiuto che si attiva durante il pasto svela l’origine di questo dolore: un rapporto altrettanto conflittuale con l’oggetto materno ( Bruch, 2003; 1996). 

È probabilmente il legame indifferenziato con una madre anaffettiva, sperimentato sin nel contesto diadico, che spinge a rifiutare il cibo come espressione di nutrimento e simbolo della vita stessa. 

La madre, esattamente come il cibo, nutre e tuttavia distrugge: è proprio in ragione di questo conflitto insanabile che l’istinto di conservazione e quello di distruzione, nella paziente anoressica, mostrano una pericolosa tendenza a sovrapporsi, creando pulsioni altrettanto rischiose di cui lei stessa non è cosciente: molte pazienti, in una sfida irrealistica alla stessa legge biologica, credono di poter vivere facendo a meno del cibo. O meglio, se lo impongono letteralmente, nel tentativo di dar voce al disperato desiderio di poter vivere senza la presenza della madre. 

Il cibo-madre nella paziente anoressica

Nelle prime fasi della vita il cibo rappresenta la madre. La sovrapposizione tra questi due aspetti è totale: di conseguenza, un cattivo rapporto dell’infans con il cibo può sottendere una percezione altrettanto  persecutoria dell’oggetto materno (Freud, 1967).  Rifiutando il cibo il bambino rifiuta una madre che a sua volta lo ha deluso, invadendolo con una genitorialità narcisistica e colonizzante, volta a neutralizzare ogni sua velleità di differenziazione, e al contempo ignorandone le necessità affettive.  

Questa stessa madre è stata introiettata come un oggetto persecutorio dal forte potere identificativo, anche a causa di una relazionalità simbiotica che lei stessa ha incoraggiato nel figlio. Ed è proprio a causa di questa identificazione patologica che la paziente anoressica, nel tentativo di punire un oggetto materno cattivo, non può che punire anche se stessa, in un deficit di autoconsapevolezza che la porta a sentirsi totalmente contenuta e indistinta dalla madre. 

In particolare, l’impossibilità di stabilire una linea di confine psicosomatica tra il proprio Sé e l’oggetto materno le ha impedito di godere di un corpo che non percepisce come proprio, in quanto sovrapposto- nella dimensione oggettuale come in quella rappresentativa- a quello della madre. 

L’anoressica odia la madre e il Sé-madre, e nel cibo verrà costruito il simbolo patologico di questa pulsione autodistruttiva che, al di là della dimensione nutritiva, si estende ad ogni aspetto pulsionale legato all’istinto di vita

A tu per tu col cibo: il piatto come campo di battaglia

L’angoscia di essere invasa dagli alimenti viene combattuta con ritualità agite ricorsivamente, al fine di evacuare la negatività connessa al concetto stesso di pulsione orale- introiettiva. Vediamone alcuni. 

  • In genere l’anoressica preferisce consumare i pasti da sola, per sentirsi al riparo da presenze esterne- percepite come tossiche- che si rifiuta di introdurre. Gestendo il pasto a proprio piacimento ella attua strategie auto confermanti, gratificando le velleità di autogestione che le sono sempre state negate. Al contempo, decidere da sola il piano alimentare le consente di liquidare le angosce per quei bisogni orali inappagati, e per questo terribilmente voraci, che avverte la necessità di contenere, quasi di disconoscere, per non venirne distrutta. 
  • Oltre a ridurre la possibilità di ingrassare, l’assumere cibi magri, non conditi e a basso contenuto calorico si mostra in linea con il modello di vita perfezionistico e privativo tipico dell’anoressia. L’atto stesso di mangiare viene privato di ogni valore conviviale per assumere un significato meramente persecutorio. Il cibo diventa una minaccia da controllare, un nemico da cui difendersi senza mai abbassare la guardia. Dunque è necessario spogliare il pasto di ogni connotazione di piacevolezza e appagamento, per non doverne subire il fascino “mortale”; 
  • Di frequente il cibo viene consumato lentamente, a piccoli bocconi. Questo non soltanto al fine di tenere sotto controllo la quantità di alimento ingerito, ma anche per costruire un mezzo di difesa contro un processo introiettivo di cui viene temuto l’effetto colonizzante. Non da ultimo, masticare lentamente e a piccoli bocconi conferisce l’illusione di aver mangiato di più e più a lungo, agevolando il senso di sazietà.  
  • Talvolta il cibo viene mescolato in maniera disomogenea, disperso in un coacervo cromatico che ne dissolve l’integrità, frazionandola in una serie di oggetti parziali privi di forma e di identità specifica;
  • Altre volte, anziché mescolato in un’unica poltiglia, il cibo viene rigidamente suddiviso all’interno di spazi ben distinti, e qui disposto con simmetria ossessiva, in risposta ad un istinto pulsionale in cui il mantenimento delle distanze rappresenta un elemento salvifico. Nel piatto come nel Sé. 
  • Da ultimo non sono infrequenti le condotte di frammentazione, a seguito del quale gli alimenti vengono sezionati, letteralmente fatti a pezzi, in una sorta di controllo preventivo finalizzato ad accertarsi della natura di ciò che sta per essere ingerito. 

La frammentazione del cibo- intesa come distruzione dell’unitario-  può essere identificata con una sorta di spaltung psicotico, un pensiero disintegrato da un’angoscia non verbalizzabile e agita con funzione evacuativa. 

In un’ottica kleiniana l’Io ricorre alla frammentazione, intesa come meccanismo difensivo, soltanto quando avverte la presenza di un’angoscia persecutoria particolarmente intensa, che non è in grado di gestire con le sole risorse di cui dispone ( 1957). 

Data la fragilità di un Io indebolito dalla madre, l’unico modo per controllare questa angoscia dal forte potenziale distruttivo è la regressione alla fase schizoparanoide e ai meccanismi di difesa tipici della stessa: la scissione, intesa come l’impossibilità di integrare in un’unica dimensione due aspetti del medesimo oggetto, l‘identificazione proiettiva, in cui pulsioni individuali vengono evacuate e controllate in una modalità manipolativa, e la frammentazione,  che vede l’oggetto cattivo contenuto nel Sé  venir privato del proprio potere annichilente. 

In una realtà come quella schizoparanoide, costruita sulla base di scissioni, relazioni con oggetti parziali, impossibilità di integrazione sintetica tra aspetti di un medesimo oggetto, l’oggetto cattivo e la parte dell’Io che con lo stesso si identifica  vengono sottoposti ad attacchi distruttivi che li frammentano in parti numerose, minute e maligne ( Lingiardi, Madeddu, 2002); il tutto con la compiacenza di un meccanismo  difensivo sadico, reso possibile dall’assenza di quelle angosce depressive che favoriscono la sperimentazione di sensi di colpa  e velleità riparative.  

Le ragioni della frammentazione difensiva 

L’anoressica riproduce nel piatto la frammentazione che un oggetto cattivo ha perpetrato nel suo Sé, distruggendolo. Questo stesso oggetto cattivo, una volta proiettato nel cibo viene negato, svilito nelle proprie componenti strutturali, per non dover essere più temuto e finanche riconosciuto. In questo meccanismo nullificante vengono agite le seguenti pulsioni: 

  • INVIDIA: l’anoressica frammenta il cibo per distruggerne gli aspetti appaganti.  Dunque ne svilisce il contenuto – anche sotto un punto di vista estetico- per privarlo di un valore gratificante di cui sa di non poter godere, e che sotto la spinta di un’invidia tipicamente schizoparanoide vuole disconoscere fino a renderlo intesistente; 
  • CONTROLLO: la frammentazione dissolve l’oggetto cattivo e il suo potere mortifero, restituendo all’Io una parvenza di controllo su se stesso e sulla realtà; 
  • RIFIUTO DIFENSIVO DEL LEGAME: tramite la scomposizione in frammenti minuscoli e impercettibili la dimensione egoica si mette al riparo dall’oggetto cattivo- come entità ed identità- ma anche dalla possibilità di instaurare con esso un legame relazionale. Torna la necessità di difendersi da un cibo che, proprio come l’oggetto materno, nutre ma intossica, e mentre nutre uccide. 
  • ONNIPOTENZA NARCISISTICA: negare ogni possibile dipendenza dal cibo materno si mostra in linea con i tratti narcisistici presenti nell’anoressia; quel narcisismo maligno che rifugge ogni legame oggettuale proprio per evitare il rischio di sperimentare gratitudine e riconoscenza verso l’oggetto (Kernberg, 2016). Il narcisista è sufficiente a se stesso, e anche l’anoressica crede di esserlo. Dipendere dal cibo, e ancor più dal cibo-madre, è l’ultima cosa che desidera. Ella si compiace di un vuoto nullificante nel quale non deve riconoscenza ad alcuno. Soprattutto a quella presenza materna che, colonizzandola con i suoi aspetti desertificanti, l’ha costretta ad identificarsi con oggetti altrettanto mortiferi che hanno spento in lei ogni istinto vitale. 

È a causa di questi oggetti mortiferi se il rifiuto del cibo,nell’anoressia,arriva a tingersi di connotazioni quasi “erotizzate”, sotto la spinta di un delirio nichilistico in cui il rifiuto del nutrimento diventa esso stesso il nutrimento. Il sadismo di un Super Io intransigente e ipertrofico, in questo caso non si limita a mortificare l’Es, ma si sostituisce in toto ad esso, prendendone definitivamente il posto. Dunque la mortificazione diventa pulsione, la censura diventa libido desiderata e appagante. Il divieto e la restrizione si trasformano nell’unica gratificazione cui è giusto e necessario ambire. 

È il trionfo della sconfitta. 

Vuota, annientata e mortificata nel profondo, l’anoressica si nutre del niente. E se ne compiace, dando vita ad un meccanismo psicotico che la allontana dalla realtà, per renderla ostaggio di una dimensione siderante in cui ogni cosa perde consistenza, identità, valore vitale. 

Nulla è in grado di riempire e nutrire davvero perché lo stesso nutrimento è ridotto ad un nulla: l’oggetto rien (Lacan, 1974; 1938) di cui si nutre con apparente gratificazione, contamina alla fine ogni aspetto della sua personalità, rendendolo egualmente vuoto ed infecondo. 

: Cibo, metafore e anoressia
Il cibo come metafora patologica nell’anoressia nervosa

Dott.ssa M. Rebecca Farsi

Per approfondire

Bruch, H. (2003), La gabbia del’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano; 

Bruch, H. (1996), Anoressia, casi clinici, Raffello Cortina, Milano; 

Cosenza, D. (2008), Il muro dell’anoressia mentale, Astrolabio Ubaldini, Roma; 

Freud, A. (1936), l’Io e i meccanismi di difesa, Giunti, Firenze; 

Freud, A. ( 1965), Normalità e patologia nel bambino, Feltrinelli, Milano, 2018; 

Kernberg, O. (2016) Odio, rabbia, violenza e narcisismo, Astrolabio Ubaldini, Roma, 2021; 

Klein, M. (1957) Invidia e gratitudine Giunti, Firenze; 

Klein, M. ( 1928) Amore odio e riparazione, Astrolabio, Roma, 1978; 

Lacan, J. (1973) Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Einaudi, Torino, 1979; 

Lacan, J. ( 1938), I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Einaudi, Torino, 2005; 

Lingiardi, V. Madeddu ( 2002) I meccanismi della difesa. Teoria, valutazione, clinica. Raffello Cortina, Milano; 

Segal, H. ( 2015) Introduzione all’opera di Melanie Klein, Giunti, Firenze. 

Anoressia, cibo, cura, metafora, psicologia

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