La madre. Una morbida danza fra assenza e presenza

Oggi vi parlerò di madri. Ma di madri un po’ diverse da quelle idealmente tratteggiate sui libri di lettura per bambini e dai colori pastello. Per far questo ho bisogno però di usare tinte assai più forti e decise, di evidenziare i chiaroscuri, di metterne in risalto sia le luci che le ombre e ciò perché la maternità porta con sé un insieme di vissuti ambivalenti che discendono dalla complessità che un’esperienza trasformativa simile possiede. Tale circostanza porta la donna ad essere spesso “vittima” (suo malgrado) di scontri titanici fra forze interne a sé opposte e all’apparenza del tutto inconciliabili e questo proprio perché quella donna al suo interno è anche e comunque madre. O sarà invece che il conflitto discende dal suo essere, adesso, prima di tutto madre e solo dopo, forse, (anche) donna? E qui arrivo al punto. Recalcati – fra i più noti psicoanalisti lacaniani del nostro Paese –  ci illustra egregiamente l’affascinante quanto tortuoso viaggio verso la maternità, puntando in special modo sulle sue declinazioni patologiche, figlie della sempre più frequente impossibilità di coniugazione dei due ruoli: quello di donna e quello di madre.

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Il complesso di Edipo secondo Laio. Il padre mutilante

Narra il mito greco di un Titano, Crono, che evirò e spodestò il padre Urano, sotto richiesta della madre Gea, divenendo a sua volta il Re dell’Olimpo. Nonostante avesse avuto come padre un modello fallimentare che rinchiudeva tutti i suoi figli nel profondo Tartaro, Crono preservava le stesse angosce del padre, ingoiando, di conseguenza, tutti i figli fatti con Rea, per il timore che qualcuno di questi potesse spodestarlo al trono.

Questo mito, come molti di altre religioni pagane e monoteiste, mette chiaramente in scena una dinamica inconscia vissuta nella relazione padre-figlio, ossia l’altra medaglia dell’Edipo (Per approfondimenti si rimanda all’articolo “Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre”): Il complesso di Laio (padre di Edipo).

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Obesità. L’imbottitura dell’anima

Sono una psicologa e lavoro con pazienti con obesità.

Molte persone mi hanno chiesto in diverse occasioni “cosa ci fa” una psicologa con gli obesi, “gli prescrivi una dieta?”, “vai a correre con loro?”, scherzano. Me lo sono domandata anche io “cosa posso farci”, nel momento in cui per tutta una serie di motivi sono finita a lavorare con questa patologia. È importante domandarsi la ragion d’essere del proprio lavoro, qualunque esso sia, in ogni occasione, anche laddove questa ragion d’essere sembri scontata. Ebbene da questo mio interrogarmi, come sempre accade quando si complica una questione, non è arrivata una risposta chiara e lineare, ma un insieme di riflessioni, che derivano appunto dalla pratica clinica, che desidero condividere con i lettori. La scrittura infatti, così come la parola, il racconto che si fa ad un amico, serve spesso a questo, a mettere ordine, ad inserire eventi apparentemente disordinati e sconnessi tra loro all’interno di una narrazione, che fornisca quindi una cornice, un ordine di senso a ciò che sta accadendo.

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L’abitudine
“Vestirsi” di sè

Settembre. A presto, Estate.
Si ricomincia.

 
È sempre bello tornare a casa. Bentornata “solita vita”. Possiamo percepire realmente il gusto di un viaggio nel momento esatto del ritorno, quando il bagaglio di nuove esperienze acquisite durante il percorso, ci dà lo spinta per affrontare con nuove ricchezze la vita di tutti i giorni (si rimanda all’articolo sul viaggio “Sul bisogno di occhi nuovi” della rivista di aprile 2015).

Al ritorno, sfogliando le foto scattate durante il viaggio e riassaporando quei momenti di libertà dagli obblighi della vita convenzionale, ci assale un sentimento di malinconia che ci spinge a a fantasticare su possibili strategie di evasione dalla routine. È in quel momento di passaggio fra il “dolce far niente” e la ripresa delle responsabilità quotidiane, che sentiamo la pesantezza del ritorno.
Settembre è, per tutti, tempo di valutazioni sul presente e di scommesse sul futuro.

Mi chiedo, a volte, cosa ci porta a scegliere una vita piatta; o meglio, non mi chiedo, contesto.” (un verso di “Quasi” – poesia di Luis Fernando Verissimo, riportata integralmente in fondo all’articolo)

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Le possibili conseguenze di un abuso. Mi fido di te?

Roma – 29 giugno. Un uomo fingendosi un poliziotto si avvicina a tre ragazze ed intima ad una di queste di seguirlo con i propri documenti. Lei lo segue, d’altronde si tratta di un uomo delle forze dell’ordine. Percorrono una strada in fondo alla quale c’è una caserma dei carabinieri. Ma prima di giungere a questa, l’uomo tira per il braccio la ragazzina e la porta in uno spiazzo ben isolato e nascosto. Qui consuma lo stupro. Successivamente la riporta dalle amiche dicendole che avrebbe dovuto raccontare di aver ricevuto una multa e che non avrebbe dovuto riferire nient’altro dell’accaduto. La ragazzina non grida, non si ribella, non perché consenziente ma perché capisce che sarebbe stato l’unico modo per tornare dalle amiche e poter raccontare tutto. Per fortuna quando tornano da loro, ad aspettarli c’è anche la madre di una di queste. L’uomo la vede, si spaventa e inizia a correre, smascherandosi. É stato arrestato e sarà processato.

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L’invecchiamento. Il tempo che passa

Gli stadi evolutivi che una persona attraversa durante la vita sono numerosi: si passa dall’infanzia alla prima fanciullezza, per arrivare all’adolescenza e proseguire con la giovinezza sino all’età adulta, che sfocerà poi nell’età senile. Ogni stadio di sviluppo comprende dei compiti ben precisi che devono essere superati  e risolti  per poter passare alla fase successiva; anche le relazioni dipendono dalle fasi dello sviluppo: è così che nell’infanzia per esempio, la relazione principale è quella che si instaura tra madre e bambino, nell’adolescenza quella tra coetanei, nell’età senile invece le relazioni dovrebbero ricomprendere una moltitudine di persone, famigliari, amici di vecchia data, ex colleghi, compagni di gioco. Vorrei centrare la mia attenzione proprio su quest’ultima fase della vita, cioè l’età senile, quella che molti chiamano la fase dell’invecchiamento. 

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Disturbo da Accumulo. Quando conservare diventa una malattia

Che differenza c’è tra una foto che ci ritrae in braccio ai nostri genitori quando avevamo un anno di età e una scatola di biscotti vuota? La maggior parte delle persone risponderebbe che la prima ha un valore affettivo e che quindi non se ne separerebbe mai, mentre la seconda è solo qualcosa da buttare. Per una persona affetta da disturbo da accumulo (DA) tutti gli oggetti hanno una loro ragione d’essere: perciò alla precedente domanda, l’accumulatore (hoarder) riuscirebbe a capire di certo la differenza affettiva tra la foto e la scatola, ma non si priverebbe di quest’ultima, trovandole un’altra utilità o conservandola su di uno scaffale. I pazienti con DA hanno con gli oggetti un rapporto non molto diverso da quello che ha la maggior parte delle persone: tutti siamo affezionati ai nostri ricordi e conserviamo oggetti senza valore intrinseco se non il significato psicologico e affettivo che gli diamo noi; così come spesso capita che la maggior parte di noi occupino inutilmente spazio dentro casa o in cantina con oggetti che non ci servono, ma che un giorno potrebbero tornarci nuovamente utili. Il problema è che i pazienti con DA hanno questo rapporto di forte legame affettivo con un numero esagerato di oggetti e vedono in ognuno di essi “opportunità future”, per cui diviene impossibile separarsene. Allo stesso tempo per gli accumulatori gli oggetti sembrano essere “pezzi di sé”, una parte integrante della propria identità e uno strumento per mantenere un legame con parti della propria vita e con il passato, per coltivare la memoria e continuità del sé.

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Il Complesso di Edipo. All’alba della legge del padre

C’era una volta un re, Edipo, sovrano della città di Tebe; questi, inconsapevole del legame parentale con lei, aveva preso in sposa la moglie-madre Giocasta, vedova del primo marito Laio, ucciso proprio per mano dell’ignaro figlio Edipo; dall’ unione fra lui e la “scomoda” consorte, nasceranno ben quattro figli. In un simile scenario, apparentemente senz’ombra alcuna e che vuole i suoi principali protagonisti all’oscuro della più atroce verità, si cela, di contro, l’emblema dei rapporti incestuosi. Quella stessa verità, una volta svelatasi in tutta la sua crudezza, porterà Edipo, inorridito dagli atti compiuti suo malgrado – cui farà seguito l’impiccagione di Giocasta –  ad accecarsi. Un po’ come se, dopo quell’abominio involontariamente perpetrato, come estrema punizione, nulla avrebbe più potuto sottoporsi alla sua visione. Concluderà i suoi giorni esiliato, dimenticato da Tebe e dalla sua gente, allontanato dagli dei. Ed è proprio dalla celebre tragedia greca di Sofocle, l’Edipo re, che Freud trae diretto spunto per dar vita ad una delle nozioni più affascinanti, dibattute e controverse che la storia della psicoanalisi abbia mai conosciuto: il “Complesso di Edipo”, dalla cui modalità di superamento discenderà la futura scelta oggettuale dell’individuo. Esso racchiude in sè l’insieme dei sentimenti e dei desideri di natura sessuale espressi in tutta la loro ambivalenza e provati dal bambino verso i propri genitori: il complesso raggiunge la sua massima espressione fra i 3-5 anni, tempo che coincide con il cosiddetto “stadio fallico”, in cui secondo Freud tutti gli interessi del bambino sembrerebbero ora convogliati, appunto, verso il fallo (presente nel maschio/assente nella femmina.

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Sogni Tipici. L’umanità che sogna

La funzione del sogno, nell’arco della storia, ha subito un notevole cambiamento. Nell’antichità, infatti, all’interno delle culture tribali, il sogno, fatto e raccontato dallo sciamano, rappresentava il campo emotivo comune dell’intera tribù: condividere tali sogni con l’intera comunità permetteva la conoscenza stessa di tale campo, allo scopo di rafforzare i legami tra i membri, garantendo la sopravvivenza del singolo e del gruppo, poiché la sintonia era l’elemento fondamentale per poter cacciare e lottare in “sicurezza”.

Con l’emergere di civiltà più evolute, come l’antica Grecia e l’Impero Romano,  il sogno perderà la sua funzione sociale diventando la rappresentazione di un’oscurità psichica personale o di un presagio divinatorio.

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L’attacco di panico. Quei sani sabotatori interni

Tutti noi abbiamo almeno una volta sentito parlare del “celebre” attacco di panico, molti di noi conoscono persone che ne hanno avuto uno, altri lo hanno sperimentato in prima persona, altri ancora se lo sono autodiagnosticato grazie alle notizie frammentarie provenienti da amici, conoscenti, internet etc.

Si potrebbe quasi dire che l’attacco di panico è la patologia di questi anni. Un po’ come era avvenuto per l’isteria tra fine ‘800 e inizio ‘900. Infatti, le patologie, soprattutto quando parliamo dell’area psichica, rappresentano un riflesso della cultura, del pensare comune e del periodo storico in cui si manifestano. Così come l’isteria era una patologia che metteva in scena sul corpo tutta una serie di vissuti emotivi inaccettabili per la società del tempo e quindi per la coscienza dell’individuo (per un approfondimento si rimanda all’articolo sull’Isteria della rivista di aprile), così nell’attacco di panico, i black out incontrollabili cui l’individuo va incontro rappresentano dei segnali che la nostra mente, attraverso il nostro corpo, ci manda, per segnalarci che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe. 

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