L’immigrazione. A che gruppo appartieni?

Forse solamente leggere la parola Immigrazione fa spaventare, irrigidire oppure provare un senso di nausea e mal sopportazione nei confronti del fenomeno che è ormai diventato il problema numero uno dell’Unione Europea. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensate. Se fate parte di chi la difende ad oltranza o di chi la osteggia in tutti i modi, di chi ritiene che vada sostenuta solamente se regolare o giustificata da asilo politico o di chi pensa che in ogni caso non siamo più in grado di accogliere nuovi flussi migratori.

La Germania ha aperto le porte ai profughi siriani e treni carichi di speranza hanno raggiunto la nazione governata dalla Merkel, la quale si è trovata costretta a bloccare momentaneamente gli ingressi per gestire la situazione. Gli altri Paesi Europei di solito maggiormente interessati da sbarchi ed arrivi, come Italia e Grecia, probabilmente hanno un po’ gioito per il fatto che questa volta sia stata la Germania a sperimentare le difficoltà dell’accoglienza e quindi a rendersene conto. Probabilmente adesso si sentiranno più forti nella battaglia politica ormai sempre aperta sull’argomento.

Ma si tratta solo di politica? Il fatto che io scriva un articolo simile su una rivista online di divulgazione di psicologia probabilmente fa già intendere qual’é il mio pensiero. No, non è un fatto esclusivamente politico: o meglio, non riguarda solamente la politica intesa come rapporti tattici e di interesse tra Stati. Riguarda invece la politica come dimensione della vita comune.

È un fatto riguardante la vita comune o meglio la sfera pubblica. Ma perché?

Perché cambiando l’epoca storica cambia il popolo che migra. Una volta erano gli italiani a migrare in America.

Questa potrebbe essere la prima risposta, quella più immediata.

Ma io aggiungere che riguarda la sfera pubblica perché è un fatto umano, un fenomeno che coinvolge esseri umani e al quale sottostanno innumerevoli dinamiche psicosociali.

È un fatto umano perché riguarda esseri umani e non Siriani, Libici, Senegalesi, Italiani, Greci, Tedeschi, Francesi. Al di là di ciò che è scritto sulla carta d’identità, al di là del Paese di provenienza, al di là della nazionalità.

Ma può esserci realmente condivisione ed empatia tra popoli diversi?

Per alcuni probabilmente la risposta a questa domanda non è proprio un si scontato. Si tratta di coloro che, partendo dall’attaccamento alla propria terra, finiscono per far coincidere la propria identità con l’identità nazionale. Perciò non siamo più tutti esseri umani uguali, ma popoli diversi. Per questo ciò che riguarda i Siriani non riguarda gli Italiani.

Ma quali sono i meccanismi e le dinamiche psichiche alla base di questo attaccamento all’identità nazionale? Perché il proprio popolo è meglio degli altri? Perché alcuni popoli, o gruppi, si uniscono nella battaglia al diverso?

Alcuni ricercatori nell’ambito della psicologia sociale hanno studiato i meccanismi psicologici che uniscono gli individui di un gruppo e che regolano il rapporto con gli altri gruppi.

Lewin ha usato l’espressione interdipendenza del destino per parlare del senso di appartenenza che si sviluppa all’interno dei gruppi che condividono la stessa sorte. Quindi diversi individui si sentono di appartenere allo stesso gruppo se, tra di loro, hanno in comune lo stesso destino. Partendo da questa concettualizzazione potremmo già ipotizzare che l’idea di rischiare un futuro incerto a causa della crisi economica, può accomunare molte persone e farle sentire “sulla stessa barca”.

Rabbie e Horwitz partendo dall’idea di Lewin realizzarono una situazione sperimentale con adolescenti che venivano divisi in due gruppi, blu e verdi, di stesse condizioni sociali e stessi livelli di intelligenza. Ad ogni gruppo veniva chiesto di compilare un questionario nel quale dovevano esprimere valutazioni e giudizi sull’ingroup (proprio gruppo) e sull’outgroup (l’altro gruppo). Questo veniva presentato come un compito al quale poteva seguire un premio assegnato ad uno dei due gruppi. I due sperimentatori notarono che assegnando un compito condiviso (interdipendenza del destino) e stimolando la competizione con l’altro gruppo, era possibile osservare un atteggiamento di maggiore favoritismo nei confronti del proprio gruppo e uno di maggiore ostilità nei confronti dell’altro: il cosiddetto “bias ingroup/outgroup”, un errore sistematico di valutazione del proprio gruppo e dell’altro basato sul senso di appartenenza.

In modo simile Sherif ha studiato il comportamento dei gruppi strutturando una situazione sperimentale interessante: l’esperimento del campo estivo. Ragazzi di 12 anni, senza patologie fisiche o psicologiche, vennero portati ad un campo estivo della durata di due settimane. In una prima fase dell’esperimento vennero lasciati liberi di relazionarsi tra di loro senza divisioni e vivendo una vita comunitaria. Si instaurarono delle relazioni. Nella seconda fase i ragazzi vennero divisi in due gruppi, i Rossi e i Blu, con l’accortezza di separare coloro che erano diventati amici. Nella terza fase i due gruppi vennero messi in competizione tra di loro tramite gare e attività che prevedevano un premio per il vincitore. Sherif osservò che da questo momento i rapporti stabiliti, prima della divisione in Rossi e Blu, deteriorarono rapidamente. I due gruppi svilupparono stereotipi negativi l’uno nei confronti dell’altro, mettendo in atto anche comportamenti ostili; inoltre aumentò la coesione dell’ingroup e la discriminazione nei confronti dell’outgroup.

Sherif legò il bias ingroup/outgroup al conflitto reale elaborando la teoria del conflitto realistico. Questa venne poi criticata per il fatto che il conflitto poteva anche essere percepito più che reale.

Come avete potuto leggere esistono delle dinamiche psicosociali sottostanti al funzionamento dei gruppi che si intrecciano con la nostra vita pubblica di tutti giorni. Per questo prima di esprimere idee, opinioni e giudizi sull’immigrazione e sugli immigrati sarebbe opportuno rendersene conto. Per il resto…che il confronto abbia inizio.


Dott. Roberto Zucchini

Per approfondire:

Mantovani, G. (2003). Manuale di Psicologia Sociale. Giunti Editore.

Arcuri, L. (1995). Manuale di Psicologia Sociali. Bologna: Il Mulino.

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