Le possibili conseguenze di un abuso. Mi fido di te?

Roma – 29 giugno. Un uomo fingendosi un poliziotto si avvicina a tre ragazze ed intima ad una di queste di seguirlo con i propri documenti. Lei lo segue, d’altronde si tratta di un uomo delle forze dell’ordine. Percorrono una strada in fondo alla quale c’è una caserma dei carabinieri. Ma prima di giungere a questa, l’uomo tira per il braccio la ragazzina e la porta in uno spiazzo ben isolato e nascosto. Qui consuma lo stupro. Successivamente la riporta dalle amiche dicendole che avrebbe dovuto raccontare di aver ricevuto una multa e che non avrebbe dovuto riferire nient’altro dell’accaduto. La ragazzina non grida, non si ribella, non perché consenziente ma perché capisce che sarebbe stato l’unico modo per tornare dalle amiche e poter raccontare tutto. Per fortuna quando tornano da loro, ad aspettarli c’è anche la madre di una di queste. L’uomo la vede, si spaventa e inizia a correre, smascherandosi. É stato arrestato e sarà processato.

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L’invecchiamento. Il tempo che passa

Gli stadi evolutivi che una persona attraversa durante la vita sono numerosi: si passa dall’infanzia alla prima fanciullezza, per arrivare all’adolescenza e proseguire con la giovinezza sino all’età adulta, che sfocerà poi nell’età senile. Ogni stadio di sviluppo comprende dei compiti ben precisi che devono essere superati  e risolti  per poter passare alla fase successiva; anche le relazioni dipendono dalle fasi dello sviluppo: è così che nell’infanzia per esempio, la relazione principale è quella che si instaura tra madre e bambino, nell’adolescenza quella tra coetanei, nell’età senile invece le relazioni dovrebbero ricomprendere una moltitudine di persone, famigliari, amici di vecchia data, ex colleghi, compagni di gioco. Vorrei centrare la mia attenzione proprio su quest’ultima fase della vita, cioè l’età senile, quella che molti chiamano la fase dell’invecchiamento. 

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Disturbo da Accumulo. Quando conservare diventa una malattia

Che differenza c’è tra una foto che ci ritrae in braccio ai nostri genitori quando avevamo un anno di età e una scatola di biscotti vuota? La maggior parte delle persone risponderebbe che la prima ha un valore affettivo e che quindi non se ne separerebbe mai, mentre la seconda è solo qualcosa da buttare. Per una persona affetta da disturbo da accumulo (DA) tutti gli oggetti hanno una loro ragione d’essere: perciò alla precedente domanda, l’accumulatore (hoarder) riuscirebbe a capire di certo la differenza affettiva tra la foto e la scatola, ma non si priverebbe di quest’ultima, trovandole un’altra utilità o conservandola su di uno scaffale. I pazienti con DA hanno con gli oggetti un rapporto non molto diverso da quello che ha la maggior parte delle persone: tutti siamo affezionati ai nostri ricordi e conserviamo oggetti senza valore intrinseco se non il significato psicologico e affettivo che gli diamo noi; così come spesso capita che la maggior parte di noi occupino inutilmente spazio dentro casa o in cantina con oggetti che non ci servono, ma che un giorno potrebbero tornarci nuovamente utili. Il problema è che i pazienti con DA hanno questo rapporto di forte legame affettivo con un numero esagerato di oggetti e vedono in ognuno di essi “opportunità future”, per cui diviene impossibile separarsene. Allo stesso tempo per gli accumulatori gli oggetti sembrano essere “pezzi di sé”, una parte integrante della propria identità e uno strumento per mantenere un legame con parti della propria vita e con il passato, per coltivare la memoria e continuità del sé.

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Il Complesso di Edipo. All’alba della legge del padre

C’era una volta un re, Edipo, sovrano della città di Tebe; questi, inconsapevole del legame parentale con lei, aveva preso in sposa la moglie-madre Giocasta, vedova del primo marito Laio, ucciso proprio per mano dell’ignaro figlio Edipo; dall’ unione fra lui e la “scomoda” consorte, nasceranno ben quattro figli. In un simile scenario, apparentemente senz’ombra alcuna e che vuole i suoi principali protagonisti all’oscuro della più atroce verità, si cela, di contro, l’emblema dei rapporti incestuosi. Quella stessa verità, una volta svelatasi in tutta la sua crudezza, porterà Edipo, inorridito dagli atti compiuti suo malgrado – cui farà seguito l’impiccagione di Giocasta –  ad accecarsi. Un po’ come se, dopo quell’abominio involontariamente perpetrato, come estrema punizione, nulla avrebbe più potuto sottoporsi alla sua visione. Concluderà i suoi giorni esiliato, dimenticato da Tebe e dalla sua gente, allontanato dagli dei. Ed è proprio dalla celebre tragedia greca di Sofocle, l’Edipo re, che Freud trae diretto spunto per dar vita ad una delle nozioni più affascinanti, dibattute e controverse che la storia della psicoanalisi abbia mai conosciuto: il “Complesso di Edipo”, dalla cui modalità di superamento discenderà la futura scelta oggettuale dell’individuo. Esso racchiude in sè l’insieme dei sentimenti e dei desideri di natura sessuale espressi in tutta la loro ambivalenza e provati dal bambino verso i propri genitori: il complesso raggiunge la sua massima espressione fra i 3-5 anni, tempo che coincide con il cosiddetto “stadio fallico”, in cui secondo Freud tutti gli interessi del bambino sembrerebbero ora convogliati, appunto, verso il fallo (presente nel maschio/assente nella femmina.

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Sogni Tipici. L’umanità che sogna

La funzione del sogno, nell’arco della storia, ha subito un notevole cambiamento. Nell’antichità, infatti, all’interno delle culture tribali, il sogno, fatto e raccontato dallo sciamano, rappresentava il campo emotivo comune dell’intera tribù: condividere tali sogni con l’intera comunità permetteva la conoscenza stessa di tale campo, allo scopo di rafforzare i legami tra i membri, garantendo la sopravvivenza del singolo e del gruppo, poiché la sintonia era l’elemento fondamentale per poter cacciare e lottare in “sicurezza”.

Con l’emergere di civiltà più evolute, come l’antica Grecia e l’Impero Romano,  il sogno perderà la sua funzione sociale diventando la rappresentazione di un’oscurità psichica personale o di un presagio divinatorio.

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L’attacco di panico. Quei sani sabotatori interni

Tutti noi abbiamo almeno una volta sentito parlare del “celebre” attacco di panico, molti di noi conoscono persone che ne hanno avuto uno, altri lo hanno sperimentato in prima persona, altri ancora se lo sono autodiagnosticato grazie alle notizie frammentarie provenienti da amici, conoscenti, internet etc.

Si potrebbe quasi dire che l’attacco di panico è la patologia di questi anni. Un po’ come era avvenuto per l’isteria tra fine ‘800 e inizio ‘900. Infatti, le patologie, soprattutto quando parliamo dell’area psichica, rappresentano un riflesso della cultura, del pensare comune e del periodo storico in cui si manifestano. Così come l’isteria era una patologia che metteva in scena sul corpo tutta una serie di vissuti emotivi inaccettabili per la società del tempo e quindi per la coscienza dell’individuo (per un approfondimento si rimanda all’articolo sull’Isteria della rivista di aprile), così nell’attacco di panico, i black out incontrollabili cui l’individuo va incontro rappresentano dei segnali che la nostra mente, attraverso il nostro corpo, ci manda, per segnalarci che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe. 

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Legami Di Attaccamento
Oltre l’amore di un padre

Alla Ricerca della Felicità – Film (2006)

Il concetto di attaccamento è sinonimo di cure, sicurezza e amore.

È la relazione, a cui siamo spinti sin dalla nascita da tendenze biologiche ed innate, che istauriamo con una figura di accudimento primario, definita caregiver (“che dà cure”). Il ruolo preferenziale di caregiving nella relazione con il bambino è culturalmente e biologicamente affidato alla mamma, che segue il suo piccolo nella crescita e favorisce lo sviluppo di una personalità “sana” ponendosi come “base sicura” e rispondendo in maniera “sufficientemente buona”  ai suoi bisogni. La mamma è colei che dà cibo e amore ed è, banalmente oppure no, il primo punto di riferimento del bambino.

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Intelligenza e cultura. Quale rapporto?

“Ma come non conosci A Silvia di Leopardi? E il 5 Maggio di Manzoni?”

“Ma come non riesci a risolvere un equazione di primo grado? E una proporzione?”

Credo sia superfluo chiedervi quale delle due domande vi è capitato più volte di fare o di sentirvi rivolgere. Sarà che viviamo nel Paese natale di tanti celebri poeti, scrittori, artisti e uomini di cultura. Sarà forse per questo che spesso non essere a conoscenza di un argomento letterario viene considerato indice di ignoranza e motivo di critica, mentre al contrario non sapere come risolvere un quesito di algebra, matematica o geometria viene ritenuto un fatto normale, ascrivibile all’area delle attitudini e dei limiti personali. La letteratura fa parte della cultura, la matematica forse no, secondo il pensiero comune.

Ma cosa significa essere una persona di cultura e qual è la differenza tra una persona di cultura e una persona intelligente?

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Bulimia Nervosa. Una fame da bue

Dopo la pubblicazione del mio ultimo articolo uscito su questo sito nel mese di Maggio, dal titolo Anoressia. Tra narcisismo e conflitti interiori ho riflettuto molto sulle somiglianza e le enormi differenze tra i vari disturbi alimentari, in questo caso tra Anoressia e Bulimia Nervosa. Queste due patologie vengono spesso confuse l’una con l’altra e da questo nasce il mio bisogno di fare chiarezza e ordine in un mondo caratterizzato da caos e confusione.

…E poi invece c’è lei… Valentina, una ragazza di 20 anni, molto bella, con un fisico asciutto, ama correre all’aperto, odia la solitudine e per questo si è circondata di tante persone con le quali è riuscita a costruire un legame amicale. Ama gli aperitivi con le amiche, si ritrova spesso nei bar a mangiare noccioline mentre sorseggia con gusto uno spriz. La sua vita sentimentale  non è chiara e definita, intrattiene rapporti e relazioni sessuali promiscue e impulsive che la portano ad avere uno sfrenato bisogno di conferme e per questo tende ad accumulare tanti, troppi partner sessuali.

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Il boomerang delle emozioni. Viverle o evitarle.

Il bacio, Hayez 1859 – Pinacoteca di Brera

Antonino Ferro spiega come l’evitamento delle emozioni sia un’attività principale delle nostre menti, sia di quelle patologiche che di quelle ben funzionanti. Egli parla di proto-emozioni, ovvero primitivi dati sensoriali che in alcuni casi vengono raccolti, contenuti e trasformati in emozione, in altri casi, essendo in esubero, vengono evacuati. Secondo Ferro, però, quando una modalità di evacuazione prevale nettamente sulle altre diventa un sintomo. Per fare alcuni esempi: vi sono meccanismi evacuativi di proiezione all’esterno che danno vita a fenomeni come paranoia, schizofrenie e allucinazioni; meccanismi di evacuazione nel corpo che danno vita a malattie psicosomatiche. Se la strategia è quella dell’evitamento degli stati proto-emotivi si ha l’ossessività; se la strategia è il controllo, l’ipocondria. Insomma, vi è tutta una serie di attività evacuative della nostra mente che sono vitali e la differenza fra funzionalità e patologia risiede nella modalità e nell’intensità con cui questo processo viene affrontato. Alcune persone non vivono passioni brucianti e si spengono nella routine, nella ripetitività, nella noia, pur di tenere un basso profilo di emozioni circolanti. Le emozioni non vissute possono generare in seguito paura, insicurezza e persecuzione. Se è vero però che un’attività della nostra mente è quella di difenderci dalle emozioni, è anche vero che vi è un’altra funzione che cerca di ricontattare quanto viene espulso, segregato o comunque messo a distanza.

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