Il 22 Maggio 1978 in Italia è entrata in vigore la Legge 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”) con la quale sono state depenalizzate e disciplinate le modalità di accesso all’aborto. Con il referendum del 17 Maggio 1981 proposto dai radicali, l’88% degli Italiani votanti ha abrogato tutti i procedimenti, gli adempimenti e i controlli di tipo amministrativo o giurisdizionale legati all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG). I grandi cambiamenti socioculturali degli anni, il lascito dei movimenti del Sessantotto, hanno risvegliato le coscienze e lasciato libera la donna di decidere sul proprio corpo, sulla propria vita.
Settembre del ’45. Un giovane uomo, 25 anni, fattezze tanto perfette da sembrare un dipinto, reduce da uno dei conflitti mondiali più sanguinosi che la storia dell’umanità intera ricordi. Aveva appena fatto rientro a casa, accolto dalla gioia incontenibile di quella famiglia dall’amore ingombrante, che per anni, arrancando alla cieca nell’angoscia, si era addormentata nella notte sognando senza sosta il suo ritorno dal fronte. Ma quell’uomo era gravemente ammalato e non lo sapeva ancora. Una breve quanto intensa esistenza la sua, spazzata via una settimana dopo da una polmonite che non gli lasciò alcuno scampo. Per quella famiglia, è il crollo del domani, il venir meno di ogni speranza e progettualità. La chiusura del mondo. E fu così, che un velo scuro appannò per sempre quegli occhi verdi color del mare in una donna, che nello spazio artico di quello sguardo finì col congelare l’adorato e mai dimenticato fratello.
“Gli uomini di Cro-Magnon che quindicimila anni fa dipingevano le grotte di Altamira e di Lascaux siamo noi, e uno sguardo all’incredibile ricchezza e bellezza di quest’opera ci convince, nel modo più istintivo e viscerale, che Picasso non aveva un vantaggio, quanto a raffinatezza mentale, su quegli antenati con cervelli identici ai nostri.”
Durante l’infanzia possiamo attivare una modalità ideativa, ludica e creativa capace di “dare vita” ad una presenza fantastica, perlopiù buona e affettuosa, con cui affrontare la vita.
Avere un amico immaginario è un’esperienza indimenticabile e molto più comune di come immaginiamo. Secondo una recente ricerca dell’università di Washington e Oregon, quasi i due terzi della popolazione di bambini ha un amico immaginario con cui parla, gioca, discute, va a dormire, prende decisioni importanti… quotidianamente.
Sappiamo bene che l’ambiente in cui cresciamo e i messaggi che riceviamo durante l’infanzia andranno a strutturare in futuro i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, i nostri comportamenti… la nostra personalità, insomma. Anche le fiabe e i cliché con i quali veniamo cresciuti andranno quindi a strutturare le nostre aspettative e le nostre aspirazioni sul mondo circostante.
Avviene inaspettatamente, il più delle volte. Vista offuscata, formicolio alle gambe, perdita dell’equilibro, ed ecco che il medico di turno, attento a questi sintomi specifici chiede altre analisi: “per fugare qualsiasi dubbio”. Prelievo del sangue e del liquido cerebrospinale, risonanze magnetica ed eccolo li, il medico, questa volta quello specializzato, che ti cambia la vita per sempre: “Sindrome Demielinizzante, meglio conosciuta come Sclerosi Multipla”.
La diagnosi di una patologia invalidante come la Sclerosi Multipla porta con sê molto spesso un senso di smarrimento, sconforto e terrore. La persona sente che improvvisamente hanno strappato tutti i suoi sogni, la sua prospettiva di vita “normale”, e caricato di una presenza che per tutta la vita porterà con se:
Ogni grande sbarco di migranti è seguito da una tempesta mediatica che si scatena puntualmente ogni volta, che dura qualche giorno, si affievolisce sempre più e poi si riacutizza allo sbarco successivo riattivando lo stesso processo circolare.
Ma cosa succede prima dello sbarco? Perchè si decide di intraprendere questo viaggio? Dopo che le televisioni ci informano sullo smistamento o meno dei migranti, che fine fanno queste persone?
Quando ci svegliamo la mattina, per qualche minuto ci troviamo in quella terra di mezzo, come su una nuvola, dove i sogni sono ancora lì con noi tra il mondo interno e quello esterno, tra il sonno e la veglia. Lentamente ci sentiamo sempre più a contatto con la terra, le immagini oniriche evaporano e se non diamo loro un minimo di attenzione spesso sembrano svanire nell’aria come un fumo; ma non è proprio così, i sogni non scompaiono mai del tutto, anzi alcuni sono destinati a ripetersi (in tal caso son legati ad eventi traumatici).
Giovani adolescenti a confronto che dinanzi all’ultimo modello di Iphone appena acquistato da una di loro: “Guarda qui… finalmente! Sapessi quanto lo volevo”! L’altra, fra l’incredulità e l’invidia, le fa eco appena un istante dopo: “Noo! Spettacolare! Lo voglio anch’io”! Alla voce del verbo volere: “Essere intenzionato a ottenere qualcosa. Desiderare qualcosa”. Ma questa voglia, questa bramosia neanche tanto velata, ha davvero a che fare con la dimensione del desiderio, o è tutta un’altra storia? E cosa s’intende con la parola desiderio? Prima di questo, mi corre l’obbligo di effettuare una constatazione necessaria.
L’era ipermoderna in cui siamo immersi, ci espone costantemente al convincimento (peraltro, errato) che la sempre maggiore accessibilità ai beni di consumo, non incontri nella sua imperterrita scalata verso l’alto, alcun impedimento o confine di sorta. Un’epoca come la nostra, in cui ogni “oggetto” è ormai sempre più facilmente fruibile e raggiungibile, finisce con l’impattare violentemente contro un dato via via crescente che ci coinvolge indistintamente tutti: l’esperienza del limite, è una condizione sempre meno presente nell’esistenza dell’uomo del terzo millennio. Se il concetto di “perdita” – simbolica o meno che sia – di un oggetto, normalmente, induce un momento di fermo in colui che la subisce (e che si appresta così ad attraversare il percorso tortuoso e doloroso dell’elaborazione luttuosa), è altrettanto vero che oggi l’incontro con la perdita, della cosa o dell’altro, finisce col cedere il passo alla sua tassativa, febbrile sostituzione, che si fa azione compulsiva e improrogabile. Il movimento psichico è quello della fuga in avanti, alla ricerca di un nuovo oggetto vicario che possegga o richiami anche solo alla lontana, un aspetto di quello appena andato perduto.
Ciò rende bene la cifra dell’illusione in cui l’uomo è miseramente destinato a cadere, un’illusione figlia del capitalismo mossa dal convincimento che nulla abbia il carattere della singolarità, dell’unicità, poiché tutto, al giorno d’oggi, si fa “pezzo” sostituibile. Il mero componente d’un insieme meccanizzato e privato della sua anima. Il risultato?
È un’entità assai distante dal desiderio e ben più vicina al godimento che travalica gli argini e che richiede di essere esaudito tempestivamente. Un godimento che ha il suono di una schiavitù, che non conosce attesa o frustrazione, ma che si pone come ego – centrato, autisticamente accartocciato al suo interno. Ripiegato su se stesso, è costantemente impegnato a confermare la totale mancanza di limite al suo pieno soddisfacimento. L’esistenza di un limite fondante è qui rifiutata, denegata. Eppure, un “desiderio” che faccia difetto del senso del limite, il “desiderio” spinto dall’ostinato convincimento che tutto può fare e tutto può essere, non può certo definirsi tale, finendo bensì con lo svuotarsi dell’essenza stessa da cui germoglia il vero desiderio: ed ecco che il primo si fa allora capriccio sterile, volontà erosa dall’insoddisfazione di fondo che la sorregge e che non gli concede tregua. È un albero inaridito. Un godimento senza desiderio.
A dettare il netto divario fra godimento effimero e desiderio autentico, ci pensa una norma tacitamente acquisita all’interno di ogni società che voglia dirsi civile: è la legge che permette all’uomo di confrontarsi col proprio limite e che gli ricorda che non può essere esattamente tutto ciò che vuole, né avere accesso indistinto a tutto quel che brama senza differenziazione alcuna. C’è un discrimine, un limen oltre il quale non è consentito passare. È la legge della castrazione, una legge che introduce l’uomo all’esperienza dell’impossibile, una legge non scritta che vieta all’umano di godere in-distintamente di tutto: è la legge che impedisce che l’incesto si compia, una legge che lo condanna aspramente e lo rende veto. Paradossalmente, sarà proprio questa proibizione fondante, a dar vita al desiderio pienamente detto, rendendolo esperienza possibile. Il desiderio è intanto una dimensione espansiva, generativa, che produce vita e che la vita la moltiplica: a dispetto del godimento – che parte da sé e in sé s’incancrenisce, producendo atmosfere mortifere – il desiderio autentico implica sempre la presenza dell’altro significativo, poiché per sua intima costituzione, il desiderio ha una natura relazionale. Il desiderio si fonda perciò sempre a partenza dall’altro e nell’altro ed il contatto con esso permette un allargamento degli orizzonti e del mondo che la persona vive. Da quell’istante, niente è più come prima.
A produrre desiderio, può essere idealmente qualunque tipo di incontro con l’altro, sia esso rappresentato da un viaggio, da un amore, da un libro, dalla scuola, da un amico o da un familiare. Ciascuno di questi incontri può trasformare e allargare i nostri orizzonti, poiché ci consente di trovare nuove parole per decodificare il mondo e dotarlo di quel senso che gli mancava. L’atto del desiderio possiede in sé una forza motrice creatrice, una spinta vitale che trascina verso l’esterno e che quasi “s’impossessa” dell’Io, fino a disorientarlo, fargli perdere il proprio baricentro, come ad esempio accade quando sperimentiamo sulla nostra pelle le dinamiche dell’innamoramento e ad esso cediamo, fino al punto che nessuno di noi “sceglie” di chi innamorarsi. Nel desiderio non c’è perciò alcun calcolo ragionato o imbrigliato dalle catene del giudizio morale (“qui è meglio di lì”), ma in esso regna piuttosto un aspetto d’instabilità e incertezza sottesa che lo distanzia e differenzia nettamente dalle rigide sequenze del godimento. Per Lacan, ogni forma di allontanamento o tradimento della “legge” del nostro, personale desiderio – verso il cui valore ciascuno di noi ha una grande responsabilità – sarebbe indicativo del complesso di sintomi psichici che la persona porta con sé e che in qualche modo parlano al suo posto. Ne è un esempio certamente infelice la trasparenza del corpo della giovane anoressica, che nel disperato tentativo di ricerca di parole e di sensi negli altri significativi attorno a lei – tutti strenuamente incentrati sul suo ostinato rifiuto del cibo – fa uso del suo soma per testare l’amore dell’altro. Un po’ come se quella sua chiusura alla vita sottintendesse una domanda (d’amore) che esige una risposta partecipata dell’altro. Una parola, che si fa allora segno d’amore. Nell’altro, nel desiderio dell’altro, è deposta la personale domanda di riconoscimento: se l’altro vi risponde, c’è una legittimazione all’esistenza. L’anoressica domanda: “Ho un qualche valore per te? Conto davvero qualcosa per te? Se io scomparissi, la tua esistenza sarebbe la stessa anche senza di me”? E l’anoressica, nel suo attendere una risposta dal “suo” – altro significativo (una madre, un padre), conferisce all’oggetto del suo desiderio d’amore il carattere dell’unicità, dell’esclusività: esso, in quanto oggetto sfuggente e non assimilabile, resiste ad ogni possibile baratto, facendosi soggettivamente in-sostituibile.
Per approfondire
Recalcati M. Ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano
Recalcati M. Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna. Raffaello Cortina Editore, Milano
Sempre più spesso nell’ambito degli interventi psicologici si sente parlare di Pet Therapy. Ma cosa s’intende effettivamente quando si utilizza questo termine? La Pet Therapyè un intervento, frequentemente utilizzato all’interno di un progetto terapeutico più ampio, caratterizzato dalla presenza di un terapeuta, di un animale con un suo conduttore e di un paziente. Spesso si prediligono i cani, ma anche altri animali vengono scelti in quest’ambito, come per esempio i cavalli.
La nascita di questo tipo di intervento si fa risalire agli anni ’50, quando lo psicoterapeuta Levinson ebbe modo di osservare casualmente che la presenza di un animale domestico in stanza di terapia poteva avere degli effetti positivi sul lavoro terapeutico. Più nello specifico, Levinson raccontò di avere in cura da tempo un bambino con autismo che presentava particolari resistenze al lavoro e che un giorno il piccolo s’imbatté nel suo cane. Quest’incontro si rivelò prezioso: non solo il suo paziente iniziò a venire più volentieri in terapia, ma la presenza del cane durante le sedute migliorò l’andamento della terapia stessa. Levinson introdusse così l’idea che l’animale poteva avere una funzione di co-terapeuta, riconoscendogli un ruolo particolarmente importante.
Negli anni, diversi studiosi hanno cercato di dare una spiegazione agli effetti benèfici che si possono osservare in alcuni casi in seguito a un percorso di Pet Therapy: la relazioneche s’instaura tra il paziente e l’animale sembra essere la variabile vincente. Dietro la parola relazione si nasconde un mondo, nel senso che questo termine va inteso come la possibilità che ha il paziente di conoscere e di esplorare parti di sé con l’altro in modo unico, in quanto ogni relazione è a sé, anche quella con un amico a quattro zampe!
La presenza stabile dell’animale per il paziente può restituire un senso di sicurezza e di contenimento emotivo utile per la formazione dell’alleanza terapeutica inizialmente e in seguito per il sostegno nell’esplorazione delle aree più fragili del sé. Nella relazione con un animale si scoprono anche i vissuti legati all’accudimento e quindi si stimola la capacità di comprendere le esigenze dell’altro e l’empatia. Donare calore all’altro può restituire un senso positivo di sé e abbassare il vissuto di stati ansiosi e depressivi. Anche il gioco è una dimensione della relazione con l’animale che spesso si esplora. In particolare con i cani vi è la possibilità di stabilire insieme delle regole e di giocare muovendosi nello spazio e stimolando complessi processi cognitivi e creativi.
Inoltre, con i pazienti più piccoli s’innesca spesso un meccanismo di identificazione con l’animale che permette al bambino di parlare di alcuni vissuti attraverso la figura del cane, utilizzando anche delle favole. Questo meccanismo è di enorme importanza in quanto in alcuni casi per il bambino è importante riuscire a mettere in campo il proprio vissuto e a simbolizzarlo.
Più in generale, la fisicità caratterizzante la relazione con un animale riporta a una dimensione fondamentale del rapporto, quella del contatto e del calore a partire dal corpo che ha un linguaggio unico per ogni specie animale, ma che nella cerchia dei mammiferi ha degli aspetti comuni tra tutti gli esemplari. La possibilità di stare con un mammifero di un’altra specie spinge a riscoprire il linguaggio non verbale e quindi a stare in contatto con le proprie emozioni. La possibilità di stare con l’altro senza l’utilizzo del linguaggio verbale può avere un potenziale enorme slegando il soggetto da sovrastrutture legate alla parola in grado di innescare velocemente stati difensivi.
Stare con l’altro è l’evento più naturale e complesso del mondo e la relazione è lo strumento più potente che abbiamo per rivoluzionare chi siamo. In questo senso gli animali sanno cambiare le nostre vite.
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