Spesso si pensa che il corpo non sia un tema della psicologia: la psicologia infatti si occupa della mente, dei pensieri, delle emozioni. Eppure, se osserviamo senza pregiudizi questi contenuti, ci accorgiamo che non sono astratti, ma sono vissuti concretamente nel corpo: i pensieri e le emozioni ci attraversano lasciando segni nel corpo: il batticuore, un peso sullo stomaco, un senso di pesantezza, di leggerezza, la sudorazione ecc.
Il corpo è sempre declassato, come qualcosa che c’è ma potrebbe non esserci, oppure si sceglie una sua parte, per esempio il cervello, e diventa l’unica cosa fondamentale: o siamo mente astratta o un cervello, ma in ogni caso si perde il vissuto personale, fatto di sensazioni concrete.
La paralisi del sonno è un disturbo nel quale il soggetto si presenta come cosciente ma non ha la possibilità di avere una buona presa sul proprio corpo che viene avvertito come immobile; tutto questo avviene nei momenti che precedono l’addormentamento o in quelli successivi al risveglio ed è spesso accompagnato a difficoltà respiratorie. Lo stato di angoscia che può percepire la persona coinvolta è correlata direttamente alla sensazione di impotenza. Da un punto di vista medico la Sleep paralysis è data dal malfunzionamento di un meccanismo biologico. Nella norma, quando ci addormentiamo ed in particolare nella fase REM, i nostri occhi si muovono ma il corpo resta immobile. Il punto è che, nel caso della sleep paralysis, il risveglio non coincide con la fase in cui i muscoli riprendono tono.
La condizione di chi è temporaneamente paralizzato ricorda quella del Locked-in, ovvero il soggetto è perfettamente lucido e cosciente ma un problema cerebrale rende il corpo insensibile.
Quando si parla dei valori di una persona comunemente ci si riferisce a determinati principi astratti che tendono a guidare ognuno di noi nelle numerose scelte che quotidianamente dobbiamo compiere. Da questo punto di vista, quando si pensa ai valori il rischio è quello di finire in un universo astratto che potremmo definire “ciò che pensiamo di sapere e volere”, con il suo carico di contraddizioni e problematiche che questo tipo di pensiero comporta.
Una riflessione impostata in questo modo infatti – e questo è stato un grande insegnamento degli intellettuali del ‘900 a mio modo di vedere ancora non pienamente compreso dalla cultura occidentale contemporanea – deve tenere conto del ruolo giocato da parte delle inevitabili alterazioni portate sulla realtà dai desideri inconsci della persona.
Insomma per semplificare, come scriveva Anais Nïn riprendendo una importante idea Talmudica: a volte non vediamo le cose così come sono, ma bensì le vediamo così come noi siamo (We don’t see things as they are, we see them as we are).
“Il bisogno di amare è il bisogno fondamentale dell’uomo, superiore per urgenza a quello della fame, della sete o dello stesso sesso, in quanto per soddisfarlo questi ultimi possono anche essere messi a tacere. Da dove nasce questo bisogno? L’uomo è cosciente di se stesso come realtà unica e irripetibile, della propria individualità. Questa coscienza di se stesso come realtà separata, la consapevolezza della propria breve vita, del fatto che è nato senza volerlo e che contro la propria volontà morirà: che morirà prima di quelli che ama, o che essi moriranno prima di lui, il senso di solitudine, d’impotenza di fronte alle forze della natura e della società, possono rendergli insopportabile l’esistenza. Diventerebbe pazzo, se non riuscisse a rompere l’isolamento, a unirsi agli altri uomini, al mondo esterno”.
Pubblicazione a promozione del progetto “Rondini. Centro di ascolto psicologico e assistenza legale” finanziato dalla Regione Lazio con risorse statali del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, promosso dall’Associazione Semi di Pace OdV in collaborazione con l’Associazione Il Sigaro di Freud come soggetto terzo – www.semidipace.it/progetto-rondini/
Le sensazioni che si provano a scuola quando sei un teenager sono indimenticabili. Rappresentano perfettamente alcuni aspetti di quella fase così particolare del ciclo di vita in cui la percezione dell’immagine di sé è fragile ma così impattante nella propria vita.
È possibile riattivare certi ricordi passati in età adulta quando ci si trova in situazioni di gruppo nuove come al lavoro dove ognuno ha un ruolo diverso. Ricordiamo tutti il momento dell’ingresso in classe: gli sguardi, le contraddizioni emotive, il bisogno di essere visti e accettati dall’altro. In quel turbine di confusione emozionale dell’adolescenza abbiamo chiare perlopiù le sensazioni corporee in quanto le abilità cognitive superiori all’epoca non sono sufficientemente mature per riflettere su pensieri ed emozioni e ricadono quindi sul corpo e sull’agire.
L’immagine corporea che ogni persona ha ingloba atteggiamenti e pensieri che riguardano il peso, le forme, l’altezza, il colore della pelle, la taglia.
Lo sviluppo dell’immagine corporea dipende da fattori biologici, ma anche dall’influenza della famiglia, delle figure di riferimento, del gruppo dei pari, dei media, della società e delle culture in cui ciascuno vive.
L’immagine corporea si basa su rappresentazioni di tipo cognitivo ma anche affettivo/emozionale: su di essa influiscono la storia personale, le relazioni con le figure significative, il pensiero collettivo, i messaggi veicolati dalla pubblicità e dai social. Per questo motivo essa è un elemento che gioca un ruolo di primaria importanza nelle storie di disordini alimentari e disturbo da dimorfismo corporeo.
I social oggi hanno un ruolo di primo piano nella costruzione dell’immagine corporea, e dunque anche nello sviluppo di DCA e dismorfismo, in quanto contribuiscono a diffondere gli standard di riferimento imposti dalla società.
Così come veicoli di standard restrittivi e debilitanti però i social si sono configurati anche come mezzi di comunicazione di correnti di pensiero miranti invece a sostenere la diversità, l’inclusività, la liberazione da criteri limitanti, fonte di malessere e non accettazione di se stessi.
La psicoterapia di gruppo viene praticata sia nelle istituzioni pubbliche che private in tutto il mondo per una crescente comprensione della sua rilevanza sia per la vita sociale in generale che per la terapia di comunità, oltre che per le procedure di selezione e di istruzione se vogliamo andare oltre l’ambito clinico.
“E come se stessi leggendo un libro… è un libro che amo con tutta me stessa, ma lo leggo lentamente ora, le parole sono distanti tra loro gli spazi tra le parole sono quasi infiniti. Riesco ancora a sentire te e le parole della nostra storia, ma è in questo spazio infinito tra le parole che sto trovando me stessa ora. È un posto che non appartiene al mondo fisico, dove ci sono cose che neanche sapevo esistessero. Ti amo tantissimo. Ma ora sono qui, e ora sono questa, e devi lasciarmi andare, per quanto io lo voglia, non posso più vivere nel tuo libro.”
Questo discorso è tratto dal film Her di Spike Jonze del 2013. A parlare è Samantha, intelligenza artificiale, di cui si innamora il protagonista Theodore. Nel film queste parole coincidono con un addio, ma non è questo l’aspetto, in fin dei conti non determinante, sul quale vorrei soffermarmi. La vera forza di queste parole sta nella consapevolezza che Samantha acquisisce di se stessa, lo scoprire un proprio nuovo modo di essere, di desiderare. Si riconosce come una “persona” nuova, con caratteristiche diverse emerse durante e grazie la relazione, non conosciute fin dall’inizio. Questo, inequivocabilmente, genera una crisi, una frattura, un’inevitabile frustrazione che per essere accolta, generando un cambiamento, ha bisogno di essere lasciata andare. Questo è il punto che più mi piace del discorso: lasciare andare la frustrazione.
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