“La vita è una condanna a morte.E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla, senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini. ” Oriana Fallaci
La morte è una certezza che proviamo a nasconderci per tutta la vita. Nei pensieri e nelle azioni quotidiane allontaniamo l’idea di morte, rimuovendo dalla coscienza il nostro essere mortali per poter vivere. Pensiamo inconsapevolmente alla morte come l’esatto opposto della vita, quando (riflettendoci) il contrario di morire è semplicemente nascere e non vivere… vivere rappresenta tutto ciò che riusciamo a fare fra un inizio ed una fine, la modalità in cui riusciamo a riempire a nostro modo momenti di solitudine e di compagnia. È faticoso pensare razionalmente alla vita come un’opportunità di viaggio con data di arrivo sconosciuta. È spaventoso affrontare la vita con la consapevolezza di non averne abbastanza controllo. Siamo profondamente spaventati dall’essere impotenti, in fondo, che molto spesso non riusciamo neanche a pensarlo.
Da sempre teorie ambientaliste e innatiste si sono scontrate nel cercare di spiegare come si formi l’io del bambino, la sua struttura psichica, la sua personalità. Se da una parte abbiamo il concetto di tabula rasa dove l’esperienza e l’ambiente possono “scrivere” ciò che vogliono, dall’altra abbiamo la genetica che fa da padrona, imponendo fin dalla nascita strutture già preformate, come se il destino fosse già scritto. Come sempre la saggezza popolare ci viene in aiuto, permettendoci di svincolarci da questo acceso dibattito: “in medio stat virtus”, nessuna teoria è totalmente sbagliata, nessuna teoria ha interamente ragione. L’interazionismo ci suggerisce come il patrimonio genetico abbia una forte influenza sull’essere umano che diventerò, ma allo stesso modo un certo tipo di ambiente favorirà lo sviluppo di certe mie caratteristiche piuttosto che altre. A supporto di ciò nella ricerca scientifica in campo psicologico e non solo, numerosi e significativi sono gli studi sulle coppie di gemelli omozigoti adottivi che, condividendo quindi lo stesso patrimonio genetico, sviluppano caratteristiche di personalità, capacità, modalità differenti in relazione all’ambiente in cui sono vissuti.
Martin ha otto anni, vive con sua madre ed ha appena perso suo padre, deceduto prematuramente in circostanze misteriose. Anche la mamma è davvero strana in questo periodo. Passa ore da sola, al buio, parlando con qualcosa che Martin non vede, ma che lo spaventa al punto da non lasciarlo dormire. La sua sorellastra Rebecca sa bene di cosa si tratta, perché lei ha visto quella cosa che si nasconde nell’ombra, e che ha bisogno del buio per spostarsi e uccidere. Quella presenza è reale, anche se Rebecca negli anni si è sforzata di credere che si trattasse soltanto di un incubo infantile. Ma è stata proprio quella presenza ad uccidere il padre di Martin. Rebecca è l’unica che può aiutarlo ed è l’unica disposta a credergli.
L’insicurezza è una condizione emotiva insita nell’uomo da sempre. Come ogni pensiero e vissuto esistente nella vasta gamma emotiva dell’essere umano, anche l’insicurezza adempie ad una funzione ben precisa, rientrando in una sfera cognitiva più evoluta. Ci permette infatti di metterci in discussione e, dunque, evolverci e liberarci da quegli aspetti di noi disfunzionali e immaturi. Non a caso persone definite “troppo sicure di sé” sono caratterizzate da una rigidità mentale che non gli permetterà di maturare bensì di assumere un comportamento prevaricatore nei confronti dell’altro, nel tentativo di far valere i propri pensieri e concetti immaturi. L’insicurezza però può strutturarsi in maniera persistente e pervasiva nella mente di una persona, creando un forte senso di stress e malessere interiore, congiuntamente ad un blocco dell’evoluzione del sé, dovuto alla perenne convinzione di fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Questa tipologia di insicurezza la possiamo ritrovare con lievi intensità nelle persone con un sé strutturato e in maniera predominante in individui con un sé non completamente definito.
Per “Sé” intendiamo quella totalità psichica propria dell’individuo che si sviluppa e si consolida in funzione dell’Io ed emerge tramite il riconoscimento empatico dell’altro, diverso dal Sé; in altre parole è la consapevolezza di sentirsi Sé, con le proprie caratteristiche, e riconoscere gli altri come persone diverse da sé sia nel concreto che nelle relazioni. Il sé e l’autostima si costituiscono attraverso l’amore ricevuto dai propri caregiver, in quanto il bambino comprende che lui è una persona degna di essere amata tanto quanto è stata amata dal mondo (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Organizzazione borderline di personalità – Alla ricerca di un legame d’amore“
A casa loro è scesa la sera già da un po’ e i genitori di Leo sono in procinto di mettersi a tavola per la cena. Lui, invece, non ci sarà. Il suo ritmo sonno – veglia è decisamente invertito. Nei mesi, la sua assenza si è fatta consuetudine ed entrambi sembrano ormai come tristemente rassegnati all’idea di non incrociarlo più per casa. Neppure per sbaglio.
Dopo le timide e ripetute opere di convincimento dei primi tempi, puntualmente rivelatesi tutte fallimentari, la madre del ragazzo ha ben pensato di assicurargli almeno un pasto decente al giorno, cosa che fa poggiando in terra un ampio vassoio di cibo, proprio dietro la porta della sua camera. In realtà, Leo consuma il suo pasto in solitaria solo parecchie ore più tardi, quando le mura di casa sono totalmente avvolte dal silenzio della notte e lui può sentirsi libero di sgattaiolare fuori dal suo mondo senza il rischio d’incrociare disgraziatamente lo sguardo dei suoi. Leo è probabilmente uno fra i molteplici esempi di giovani vittime di un fenomeno che ormai (anche) nel nostro paese sta’ prendendo via via sempre più piede: la sindrome di Hikikomori.
“L’arte crea una zona di vita simbolica che permette di trascendere il conflitto e di creare ordine nel caos, e infine, di dare piacere.” Edith Kramer scrisse queste parole nel 1971, ed è al suo lavoro e a quello di Margareth Naumburg che si deve la definizione teorica dell’arteterapia come metodo clinico psicologico. Secondo queste autrici i sentimenti inconsci di un individuo possono essere riconosciuti più facilmente in un immagine, che non nelle parole. In queste immagini vengono proiettate emozioni, vissuti, conflitti. Queste immagini quindi, alla stregua di materiale onirico, possono essere analizzate attraverso la cornice teorica della psicoanalisi o della psicoterapia dinamicamente orientata. Come l’interpretazione del sogno in psicoanalisi, lo svelamento dei significati inconsci rappresentati nell’opera artistica vengono esplicitati e resi quindi comprensibili a chi li ha prodotti, grazie alla comunicazione verbale tra paziente e terapeuta.
Alice è una bambina di cinque anni. Durante la ricreazione, mentre giocava in giardino è caduta dallo scivolo sbucciandosi un ginocchio. Le maestre dopo averla consolata hanno provato a metterle un cerotto, ma lei, troppo triste, non l’ha voluto. Il giorno seguente, tornata a scuola, la prima cosa che la bambina ha fatto è stata quella di chiedere alle maestre un cerotto per la sua bambola che aveva fatto la “bua”.
Il gesto che ha fatto Alice può sembrare insensato e privo di significato, ma provando a vedere cosa c’è dietro quella richiesta avanzata sotto forma di gioco è possibile scoprire un mondo fatto di fantasia, di simboli, di sogni e di magia.
Il gioco è una delle esperienze più belle e importanti che ogni persona vive, si sviluppa già in tenerissima età e molte persone lo conservano per tutta la vita facendogli assumere altre forme e nuovi significati.
Il possedere o ricercare una colpa, ossia una causa del male, è caratteristico del genere umano. Nelle antiche tribù, ad esempio, il concetto di morte naturale non esisteva ma si supponeva che quella determinata persona moriva per una colpa che aveva commesso dinanzi agli spiriti della natura oppure era vittima di un sortilegio nemico. Con l’avvento della religione cristiana il sentimento di colpa si insidia ancora di più nella società occidentale. Si crea una netta scissione tra pulsioni, desideri e istinti, che vengono relegati nell’inconscio malefico, personificati nel serpente satanico e, sull’altro fronte, la ragione e la coscienziosità che combattono e mettono a tacere le proprie pulsioni, rappresentati dal divino o, in una famosa opera, da San Michele che sconfigge il Drago. Questa impostazione cristiana fonda sul senso di colpa la propria fede, sul pentimento come redenzione, ed ammette la possibilità di cadere nelle proprie pulsionalità, unicamente se subito dopo ci si pente e si chiede perdono. È da questa tipologia culturale che nel 1800 si è sviluppata in tutta europa l’isteria (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “L’isteria – Psicopatologia dei sessi” ), una patologia mentale dove i propri desideri e le proprie pulsioni non potevano essere espresse, se non con il corpo. Il sentimento di colpa nelle donne era predominante e derivava dalle regole ferree della società patriarcale. Con il passare degli anni, il senso di colpa si è sempre di più strutturato intorno a delle regole interne, e non più unicamente esterne.
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