Dipendenze da Social Network
Forgiare il proprio Sè nella rete

Facebook è tra i social network più utilizzati, ma con essi anche Twitter, MySpace, Instagram, Google+, LinkedIn. Ad oggi risulta che WhatsApp sia il più utilizzato dai giovani italiani, e da alcune ricerche risulta essere reputato “indispensabile” dai giovani. Le reti multimediali permettono a tutti noi di collegarci l’un l’altro, in qualsiasi parte del mondo offrendoci la possibilità di condividere le nostre passioni, le nostre foto e il nostro umore, magari con persone nuove che hanno i nostri stessi interessi. È una grande occasione per ognuno di noi perché più le reti sono ampie e più stimolano il pensiero, allargano i punti di vista e aprono nuove prospettive favorendo l’innovazione.

D’altro canto però, come tutti sappiamo, possiamo rimanere “intrappolati nella rete”.  Il grande rischio è quello di non saper gestire e controllare l’utilizzo che se ne fa.

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Le fantasie sessuali femminili
La sottomissione

«L’erotismo estremo è tutto questo e molto di più, e viene interpretato da ciascuno nella chiave più adatta alla propria personalità e alle proprie caratteristiche.»
(Ayzad, 2009)

La recente popolarità di una fantasia “estrema”

Lo straordinario successo di “Cinquanta sfumature di grigio” (E. L. James, 2011) ha riportato all’attenzione del grande pubblico il ruolo della forza, della violenza e più in generale della dominazione (e quindi della sottomissione) all’interno della relazione di coppia. In particolare, con il termine sottomissione femminile ci riferiamo a quelle donne che traggono piacere sessuale e/o gratificazione emotiva dal rinunciare (a vari livelli) al controllo affidato a un partner dominante.

Sebbene i veterani delle comunità BDSM (Bondage e Disciplina, Dominazione e Sottomissione, Sadismo e Masochismo) abbiano criticato molto il romanzo della James per essere una rappresentazione inverosimile e per alcuni tratti quasi offensiva di quello stile di vita, è innegabile che il libro abbia incoraggiato molte persone “vanilla” ad essere più aperte verso alcune pratiche che prima non avrebbero mai neanche preso in considerazione. Solo per fare un esempio, nel 2012, cioè l’anno successivo all’uscita del romanzo, le vendite di sex toys legati al mondo BDSM (manette, frustini, ecc.) sono aumentate del 400%

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Edward Hopper. L’artista dell’introversione

Secondo piano al sole, 1960. Olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York

Il secondo piano di due case gemelle che sorgono sul declivio di una collina alberata, due paia di finestre, con le tende abbassate a differenti altezze, e due figure di donna, una giovane, vitale, con il corpo esposto alla luce del sole, seduta sulla balconata dell’abitazione guarda qualcosa che noi non possiamo vedere, mentre l’atra donna, matura, con i capelli grigi, fissa qualcosa davanti a sé mentre ha in mano un libro. Le due figure non comunicano, nonostante occupino lo stesso spazio, la stessa inquadratura del frame pittorico.

Guardando “Second Story Sunlight” (1960) di Edward Hopper, letteralmente “secondo piano al sole”, potrete osservare in una sola opera il manifesto pittorico ed espressivo di questo artista che ha ispirato l’arte del XX secolo in ogni sua forma ed espressione (vedi David Hockney, Alfred Hitchcock, Wim Wenders, David Lynch, Paul Thomas Anderson, Gregory Crewdson e molti altri), dalla fotografia, al cinema, alla letteratura. Il secondo piano a cui fa riferimento Hopper è un piano concettuale, simbolico, nascosto dalle architetture tradizionali americane descritte con precisione e maestria quasi metafisica dall’artista newyorkese. Il piano dell’anima, un piano intimo e celato, che abita lo spazio architettonico. Secondo Hopper infatti l’uomo e i suoi spazi architettonici sono un tutt’uno, quindi l’indagine sull’uomo, tanto cara all’artista, non può prescindere dall’architettura.

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Il falso Sé. Modellati nell’ambizione

Ognuno di noi, nel suo percorso di crescita, si è interfacciato per la prima volta in un contesto sociale diverso da quello dei propri genitori, sperimentando per la prima volta le proprie capacità relazionali all’asilo, con persone sconosciute, sino al districarsi in maniera più o meno abile nelle tante pretese sociali lavorative all’italiana. Nella scoperta di un mondo esterno che possiede valori a volte diversi da quelli famigliari, l’individuo costituisce una propria identità sociale che si fonde con l’identità personale. La creazione dell’identità rappresenta, allora, la piena consapevolezza di chi si è, delle proprie origini, dei propri stati emotivi e dei propri pensieri. Sempre più spesso, però, è comune riscontrare in molte persone, in parte anche dentro di noi, una netta scissione tra un’identità che si mostra, che si ama, a cui si crede di appartenere e una parte di sé che si reprime e che soffre, terrorizzata al sol pensiero di mostrarsi (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “l’insicurezza patologica – Ciò che non amo di me“). Si crea un falso sé, ossia un sé ideale a cui l’individuo ambisce, mettendo in pratica un processo di cambiamento dentro di sé rispetto alle proprie ideologie e comportamenti, col solo intento di convincersi di essere diventato il sé tanto ammirato: si crea, dunque, un’armatura (il falso Sé) che potrà proteggere il sé reale, percepito debole e inefficace in una determinata società.

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La morte prematura di un coniuge. Se te ne vai troppo presto

La storia di Marta. Lutto e monogenitorialità

“Pregherò queste mura, che sia vera la realtà. Dove andiamo? Cosa importeràTutti i giorni una festa giù nel cuore. Sei felice amore?”

 (Finchè morte non ci separi – Levante – Abbi Cura di te, 2015)

I nomi utilizzati all’interno dell’articolo sono di mia invenzione, a favore della tutela e della privacy di chi ha contribuito alla realizzazione dell’articolo stesso. I fatti descritti all’interno dell’intervista breve sono realmente accaduti e fanno riferimento a personaggi realmente esistiti. (G.P.)

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Psicologia dell’emergenza. Lo psicologo sul campo

Image courtesy of http://www.centrorampi.it/ 

Cosa ci fa uno psicologo sul luogo di una emergenza? No, non è l’inizio di una battuta di spirito, bensì la testimonianza di una branca specialistica della psicologia, che abbraccia contributi che provengono da molti ambiti, e che consento allo psicologo di intervenire nel qui ed ora del dramma vissuto da coloro che sono stati testimoni di grandi emergenze, tragedie, terremoti e attacchi terroristici. Secondo l’EUROPSY la psicologia dell’emergenza si applica in “situazioni critiche fortemente stressanti, che mettono a repentaglio le routine quotidiane e le ordinarie capacità di coping degli individui e delle comunità di fronte ad avversità di ampia magnitudo, improvvise e urgenti. Esse sono determinate da eventi di grande dimensione collettiva (maxiemergenze), ma anche da circostanze gravi, più circoscritte della vita quotidiana.”

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Un infinito Addio
Dalla diagnosi di un male incurabile alla separazione

“La vita è una condanna a morte.E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla, senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini. ” Oriana Fallaci

La morte è una certezza che proviamo a nasconderci per tutta la vita. Nei pensieri e nelle azioni quotidiane allontaniamo l’idea di morte, rimuovendo dalla coscienza il nostro essere mortali per poter vivere. Pensiamo inconsapevolmente alla morte come l’esatto opposto della vita, quando (riflettendoci) il contrario di morire è semplicemente nascere e non vivere… vivere rappresenta tutto ciò che riusciamo a fare fra un inizio ed una fine, la modalità in cui riusciamo a riempire a nostro modo momenti di solitudine e di compagnia. È faticoso pensare razionalmente alla vita come un’opportunità di viaggio con data di arrivo sconosciuta. È spaventoso affrontare la vita con la consapevolezza di non averne abbastanza controllo. Siamo profondamente spaventati dall’essere impotenti, in fondo, che molto spesso non riusciamo neanche a pensarlo.

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Se tu sei con me, io dormo serena. La funzione regolatrice materna

Da sempre teorie ambientaliste e innatiste si sono scontrate nel cercare di spiegare come si formi l’io del bambino, la sua struttura psichica, la sua personalità. Se da una parte abbiamo il concetto di tabula rasa dove l’esperienza e l’ambiente possono “scrivere” ciò che vogliono, dall’altra abbiamo la genetica che fa da padrona, imponendo fin dalla nascita strutture già preformate, come se il destino fosse già scritto. Come sempre la saggezza popolare ci viene in aiuto, permettendoci di svincolarci da questo acceso dibattito: “in medio stat virtus”, nessuna teoria è totalmente sbagliata, nessuna teoria ha interamente ragione. L’interazionismo ci suggerisce come il patrimonio genetico abbia una forte influenza sull’essere umano che diventerò, ma allo stesso modo un certo tipo di ambiente favorirà lo sviluppo di certe mie caratteristiche piuttosto che altre. A supporto di ciò nella ricerca scientifica in campo psicologico e non solo, numerosi e significativi sono gli studi sulle coppie di gemelli omozigoti adottivi che, condividendo quindi lo stesso patrimonio genetico, sviluppano caratteristiche di personalità, capacità, modalità differenti in relazione all’ambiente in cui sono vissuti.

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“Lights out” Abbiamo tutti paura del buio

Martin ha otto anni, vive con sua madre ed ha appena perso suo padre, deceduto prematuramente in circostanze misteriose. Anche la mamma è davvero strana in questo periodo. Passa ore da sola, al buio, parlando con qualcosa che Martin non vede, ma che lo spaventa al punto da non lasciarlo dormire. La sua sorellastra Rebecca sa bene di cosa si tratta, perché lei ha visto quella cosa che si nasconde nell’ombra, e che ha bisogno del buio per spostarsi e uccidere. Quella presenza è reale, anche se Rebecca negli anni si è sforzata di credere che si trattasse soltanto di un incubo infantile. Ma è stata proprio quella presenza ad uccidere il padre di Martin. Rebecca è l’unica che può aiutarlo ed è l’unica disposta a credergli.

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