In questo podcast, in collaborazione con Siti scommesse, illustrerò le problematiche legate al gioco d’azzardo patologico, i fattori scatenanti, i diversi tipo di giocatori patologici e gli step da intraprendere per guarire.
Vi siete mai chiesti se un farmaco, psico o no, possa intaccare la vostra vita sessuale? In che modo?
Esistono solo degli effetti iatrogeni da un punto di vista meramente fisiologico o è importante tenere in considerazione anche tutti gli altri fattori come, ad esempio, gli aspetti relazionali e sociali che possono incidere sulla nostra vita affettiva?
Donna con mani incrociate, vista di schiena- Egon Schiele
Egon Schiele, pittore austriaco vissuto agli inizi del Novecento, racconta la poetica sottesa alle proprie opere attraverso la rappresentazione del corpo; dipinto come torbido, caotico, espressione di desiderio e di caducità della vita. Attraverso forme scomposte e incerte descrive il movimento dinamico di un corpo, contenitore di un’interiorità tormentata, la cui unica pretesa risulta essere l’esistere. Un’ esistenza senza spazio e senza tempo, le ambientazioni sfumano, l’età dei soggetti appare secondaria. Il corpo in questo senso sembra essere il veicolo di qualcosa di inespresso, che trova difficilmente rivelazione mediante la parola. Ciò però non lo rende privo del significato più profondo che custodisce; nel coacervo di emozioni e sensazioni, che tali raffigurazioni suggestionano nello spettatore, domina il senso di ineffabilità circa un nucleo emotivo magmatico. La rappresentazione del corpo in tale paradigma artistico, può rimandare a quello che nel campo psicologico risulta essere un corpo trascurato all’interno delle relazioni primarie e che si fa, per questo, emblema di tutte le sue contraddizioni affettive.
“Nella mia mente sono rimaste una serie di immagini visive delle cose più strane e lontane dalla normalità terrestre. Ricordo il cielo nero come la pece, la desolazione della superficie lunare.”
A volte sono invisibili, altre volte sembrano invadenti e ansiosi e altre ancora sono rigorosi come genitori severi. Dietro una persona affetta da un patologia neurodegenerativa, c’ è quasi sempre un caregiver! Hanno molte sfaccettature, sono diversi l’uno dall’altro ma sono afflitti dallo stesso “alone”.
Sempre di più in questo ultimo periodo, in merito a vari argomenti ed eventi di cronaca, si va palesando una divisione in schieramenti opposti: trincerate dietro questioni educative divisive, la scuola da una parte e la famiglia dall’altra, si “fanno la guerra” nelle parole di insegnanti, genitori, studiosi e tecnici. Qualche mese fa, Giuseppe Lavenia scriveva su Repubblica un articolo che, partendo da una riflessione sul femminicidio, sollecitava i genitori a “svegliarsi” rispetto all’educazione emotiva e sentimentale delle figlie e dei figli, senza pretendere che questa sia compito soltanto della scuola.
I nostri armadi sono spesso stracolmi di abiti: che compriamo e abbandoniamo con l’etichetta, che acquistiamo in vista di un’occasione specifica o il cui acquisto è stato dettato da un bisogno altro rispetto a quello dell’utilità dell’abito. Ciò può portare a trascorrere troppo tempo per scegliere cosa indossare, così si finisce con lo scegliere sempre gli stessi indumenti, anche se vecchi.
Tra le trappole più comuni in cui si incorre quando si parla di disabilità – soprattutto intellettive, ma non solo – c’è l’arrogarsi il diritto di scegliere cosa è meglio, cosa può essere “bello” (con le connotazioni più variopinte) che quella persona faccia per il suo empowerment. Ma bello per chi? Meglio per chi?
“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni: ottieni il cazzo che ti meriti.” dal film “Joker” del 2019
Il 10 Ottobre sarà la giornata mondiale della salute mentale, un po’ in anticipo per stare sul pezzo, ma certi argomenti non necessitano di una ricorrenza sul calendario per stimolare riflessioni. È infatti in seguito alla visione di un film, erroneamente scartato per via dei miei infondati pregiudizi, che ho maturato dei pensieri riguardo questo tema.
Nell’anoressia il cibo rappresenta un condensato di metafore, simboli patologici in cui trovano espressione vuoti affettivi, esperienze traumatiche, introietti persecutori, oggetti parziali non integrati.
La metafora principalmente sottesa al rifiuto del cibo è l’esteriorizzazione di un bisogno orale inappagato. Una pulsione nutritivo-affettiva che, pur ripetutamente avanzata, non ha trovato gratificazione. Ostaggio di un risentimento narcisistico, quasi di una sorta di vendetta, l’anoressica respinge un nutrimento che a sua volta l’ha respinta ma del quale ha tremendamente bisogno, e il conflitto tra introiezione e rifiuto che si attiva durante il pasto svela l’origine di questo dolore: un rapporto altrettanto conflittuale con l’oggetto materno ( Bruch, 2003; 1996).
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