Venire su bene
Cos’è la pedagogia nera?

“[…]Naturalmente fui punita. Capitava spesso, per la minima disobbedienza, e le punizioni erano

quasi sempre fisiche: botte e schiaffi. A occuparsene era mia madre e sua sorella Ksenija, che si

trasferì da noi temporaneamente;[…]Mi picchiavano finché non diventavo nera e blu; avevo lividi

dappertutto. Ma a volte usavano altri metodi. A casa nostra c’era una specie di ripostiglio segreto

per i vestiti, buio e profondo, che in serbo si chiama plakar. La porta si confondeva con la parete e

non aveva maniglia; […]Non mi era permesso entrarci. Ma a volte quando facevo la cattiva – o

quando lo decidevano mia madre e mia zia – mi chiudevano lì.[…]”

Questo estratto, preso dall’autobiografia di Marina Abramović, può essere un buon punto di

partenza per comprendere cosa si intende quando si parla di Pedagogia nera.

La pedagogia nera (il termine fu coniato dalla storica Katharina Rutschky) è quell’insieme di

pratiche – ritenute educative – nei confronti dei propri figli, alunni o dei bambini in generale, in cui è

previsto l’uso della violenza fisica, verbale, e – si dovrebbe aggiungere – dell’umiliazione che ne

consegue. Questo tipo di pratiche e le loro conseguenze sono state oggetto di studio di molti, tra cui

Donald Winnicott, pediatra e psicanalista e la psicologa e psicanalista Alice Miller, la quale dedicò

a questo tema un folto numero di scritti.

Sono pedagogia nera le “botte”, gli insulti, o le famose “bacchettate sulle mani”.Per secoli si è ritenuto giusto mettere in atto questo tipo di comportamenti credendo che i bambini fossero creature informi da ammaestrare e il cui carattere dovesse esserne forgiato. Questa concezione può essere semplificata in due assunti: l’adulto ha sempre ragione e la violenza èun mezzo lecito di affermazione della propria supremazia, l’infanzia non è che una fase, precedente all’età adulta, le cui specificità sono generalmente ignorate.A raccontarlo sono non solo manuali di storia della pedagogia dall’antichità all’età moderna (con le dovute eccezioni), ma ad un occhio attento, ne sono una prova immagini del passato: vecchie fotografie e dipinti di famiglia ritraggono infanti e fanciulli vestiti esattamente come gli adulti. Questo a livello visivo ci dà una chiara idea dell’assimilazione, e conseguente assoggettamento, dell’infanzia rispetto all’età adulta.Il lento cambiamento prese avvio solo verso la fine dell’Ottocento, quando con il Romanticismo cominciò a mutare il concetto di amore e famiglia, e con il progresso industriale ed economico i cambiamenti societari portarono ad un “restringimento” della struttura familiare che passò, soltanto intorno alla metà del Novecento, da estesa a nucleare. In un certo senso tale cambiamento, anche numerico delle figure conviventi – e quindi educative – ha avuto certamente un impatto significativo nella gestione familiare. Nonni o zii, e quelle che potremmo definire “generazioni precedenti” a quelle dei genitori, smettono di partecipare quotidianamente all’educazione dei figli, oa parteciparvi meno o parzialmente. Questo può aver in qualche modo comportato l’innescamento di un altro lento processo di cambiamento relativo all’evoluzione dell’educazione familiare, che di fatto è affidata ora direttamente ai genitori i quali rivestono questo ruolo in maniera esclusiva.Ovviamente tale rapido excursus storico – e un po’ semplificato – ha come focus l’Italia. In molti Paesi infatti ancora si possono trovare famiglie di tipo esteso, per altri invece questo cambiamento èavvenuto con tempi differenti, e si deve sempre tener conto delle singole situazioni personali. Ad ogni modo è importante averne coscienza per poter comprendere davvero la natura dell’educazione familiare nella sua evoluzione, con i suoi attori, e il loro agire. Tuttavia figlia di quel vecchio concetto di infanzia, la pedagogia nera è arrivata fino a noi, cambiando anch’essa e nascondendosi, rendendo anche più difficile la sua individuazione, prevenzione e cura, radicandosi e riproducendosi di generazione in generazione.A tutti sarà capitato di sentire frasi come “Cosa vuoi che sia uno schiaffo?” “Io ne ho presi di ceffoni e guarda come sono venuto su bene!”. Tali affermazioni sono un chiaro esempio di come questo modo di pensare e di agire sia interiorizzato e normalizzato, e quanto più spesso osannato e rimpianto come una modalità giusta di educare le nuove generazioni, dimenticando invece quanto queste pratiche per chi le ha subite, siano state fonte di umiliazione e sofferenza.

Più che di un metodo educativo sarebbe giusto parlare di un metodo di condizionamento precoce

volto alla dipendenza, in quanto al centro di tale processo non c’è il bambino con le sue inclinazioni

e i suoi bisogni, ma l’adulto con le proprie frustrazioni. Vi è il suo bambino ferito che addita

l’odierno infante di poter fare ciò che lui non ha potuto fare, e per questo glielo nega convincendosi

che sia giusto così.

Le conseguenze potrebbero essere molteplici. Ad esempio, il bambino potrebbe agire credendo che

sia giusto in ogni caso sottomettersi alla volontà adulta, che ogni cattiveria ricevuta sia espressione

dell’amore incondizionato dei genitori idealizzati. Crescendo la rabbia potrebbe essere introiettata, e

potrebbe essere difficile discernere i traumi che gli adulti hanno creato con le loro azioni e con le

loro parole.

Ciò che non è contemplato dalla pedagogia nera, e dalla sua pericolosa eredità, è il diritto di ogni

bambina e bambino di essere stimato e rispettato nel suo essere e nella sua individualità, nel suo

essere diversa e diverso dal genitore o dall’adulto. Laddove si osserva quello che è definito un

capriccio, o un comportamento che può sembrare “contro” l’adulto, c’è il bisogno di affermazione e

il desiderio di espressione della propria specificità.

“[…]Quando in prima elementare la maestra disse: “Disegnate una bella casetta. La vostra casetta

dei sogni.” Eravamo in ventisette. Io pensai: “Povera maestra, alla fine avrà ventisette casette. Dai,

le faccio un gattino.” Quando consegnai il foglio, la maestra mi guardò attonita: “Ma… ma… tu

capisci quando parlo?” Non seppi spiegarle che era un dono: scelsi di sembrare deficiente.”

(Chandra Livia Candiani, Questo immenso non sapere).

Il 20 Novembre 1989 si fa un enorme passo avanti: è approvata la Convenzione ONU sui diritti

dell’infanzia, lo strumento normativo internazionale più completo e importante in materia di

promozione e tutela dei diritti delle bambine e dei bambini.

Per farne un cenno:

“Art. 16

Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata,

nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti

illegali al suo onore e alla sua reputazione. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge

contro tali interferenze o tali affronti.”

Fortunatamente, poi, negli ultimi decenni si è vista una crescente sensibilizzazione al tema, e

sempre più genitori, adulti e adulte in generale, sono interessati ad un modo di fare educazione

familiare sano e rispettoso dell’individualità del bambino. Si sente spesso parlare infatti di

“educazione gentile” o “educazione rispettosa”, come un insieme di buone pratiche educative volte

alla salute psicofisica della bambina e del bambino, che sarà poi un’adulta o un adulto educante di

domani.

Dott.ssa Silvia Salusest

Educatrice a Roma

Email: salus.silvia@gmail.com

Per approfondire:

https://www.unicef.it/convenzione-diritti-infanzia/articoli/

Katharina Rutschky, Pedagogia nera

Alice Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza

Barbara Rogoff, La natura culturale dello sviluppo

Darlene Sweetland, Ron Stolberg, Insegnare a pensare

Paolo Perticari, Bambini trattati male

Silvia Vecchini, I bambini si rompono facilmente

Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia tra XV e XX secolo

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