Ode a Chi sa Perdere
“Nessuno vuole essere Robin”

Da bambini pensiamo di essere invincibili.

Da grandi sogniamo di tornare bambini per sentirci nuovamente invincibili.

Da bambini viviamo nei cartoni animati o insieme ai nostri giocattoli avventure da supereroi.

Da grandi bramiamo le uscite al cinema per rivivere avventure da supereroi.

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La Leggenda del Re Pescatore. Curiamo le nostre ferite

 “La Leggenda del Re Pescatore inizia col re da ragazzo, che doveva passare la notte nella foresta per dimostrare il suo coraggio e diventare re, e mentre passa la notte da solo è visitato da una visione sacra: nel fuoco del bivacco gli appare il Santo Graal, simbolo della grazia divina, e una voce dice al ragazzo: “Tu custodirai il Graal onde possa guarire il cuore degli uomini!”. Ma il ragazzo accecato dalla visione di una vita piena di potere, di gloria, di bellezza, in uno stato di completo stupore, si sentì per un attimo non un ragazzo, ma onnipotente come Dio, allungò la mano per prendere il Graal e il Graal svanì, lasciandogli la mano tremendamente ustionata dal fuoco. E mentre il ragazzo cresceva, la ferita si approfondiva, finché un giorno la vita per lui non ebbe più scopo, non aveva più fede in nessuno, neanche in sé stesso, non poteva amare ne sentirsi amato, era ammalato e cominciò a morire. Un giorno un giullare entrò al castello e trovò il re da solo, ed essendo un semplice di spirito egli non vide il re, vide soltanto un uomo solo e sofferente, e chiese al re: “Che ti addolora amico?” e il re gli rispose: “Ho sete e vorrei un po’ d’acqua per rinfrescarmi la gola”. Allora il giullare prese una tazza che era accanto al letto, la riempì d’acqua e la porse al re, ed il re cominciando a bere si rese conto che la piaga si era rimarginata. Si guardò le mani e vide che c’era il Santo Graal, quello che aveva cercato per tutta la vita. Si volse al giullare e chiese stupito: “Come hai potuto trovare tu quello che i miei valorosi cavalieri mai hanno trovato?” e il giullare rispose: “Io non lo so, sapevo solo che avevi sete”.”

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Chiedilo a Kurt Cobain. Approccio psicoanalitico al suicidio

“Il segreto è che ha realmente vita solo ciò che può anche sopprimersi da sé”. (cit. C. G. Jung)

Kurt Cobain muore ucciso da un colpo di fucile autoinflitto nel 1994. Il protagonista della scena grunge odiava le armi da fuoco. Aveva la fobia per gli aghi ed era eroinomane.

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La Paura
Come “sentiamo” i pericoli

Trovo sempre complesso parlare di emozioni, dare una forma concreta ad un “sentire”.

Mi piace definirlo “sentire” e non “provare”, perché le emozioni nascono dalla percezione di uno stimolo esterno ma vengono sentite dentro, prendendo vita in un corpo che ne sperimenta gli effetti. L’emozione è un’esperienza totalizzante, lunga perlopiù qualche attimo soltanto che, attraverso il “sentire” sul corpo, acquista una sua unicità.

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L’imbarazzo
La fortuna di sentirsi inadeguati

È un sabato sera con amici; sei casual ed elegante perché la serata lo permette. Ti senti in gran forma, bevi, mangi, ridi, scherzi..  fin quando ti sbilanci un po’ troppo dalla sedia su cui ti stai dondolando in quel pub alla moda e così pieno di gente.. perdi l’ equilibrio  e in un attimo ti ritrovi a terra con gli occhi dei tuoi amici e di tutto il locale puntati addosso e il brusio di qualche risatina. 

Possiamo immaginare di trovarci in una simile situazione e percepire una pervadente sensazione di imbarazzo accompagnata dal desiderio di diventare invisibile.. “Come ho fatto ad essere così scemo? Cosa penseranno ora gli altri (di negativo) su di me? Come ne esco da questo imbarazzo?”, sono le possibili domande che prenderebbero forma in noi in tale situazione, in maniera consapevole o meno.

L’imbarazzo è un’esperienza comune e, come vedremo, anche molto positiva a livello sociale, ma può presentarsi come più o meno faticosa da gestire in base ai differenti tratti di personalità che ci caratterizzano.

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La teoria emotiva dell’obesità
Alla ricerca di un equilibrio tra pieni e vuoti

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

Il tema dell’obesità è stato trattato diverse volte nella nostra rivista (per approfondimenti si rimanda agli articoli “Dipendenza da cibo- il legame tra nutrimento ed emozione” nel mese di febbraio 2015, “Obesità – L’imbottitura dell’anima” nel mese di settembre 2015). Questo perché nei diversi disturbi riguardanti l’alimentazione, sebbene abbiano un’eziologia multifattoriale, la componente psicologica è sempre presente. Per prima cosa sarebbe utile fare una distinzione tra obesità esogena ed endogena. Quando parliamo di obesità endogena parliamo di un disturbo causato da una patologia organica, come può essere ad esempio un problema alla tiroide o una patologia medica di altro tipo. L’obesità esogena al contrario è un disturbo del comportamento alimentare che ha all’origine un’anomalia nel modo in cui è avvertita la fame, a causa di un apprendimento percettivo errato. In entrambi i casi, però, sia che la componente psicologica sia la causa, sia che costituisca una conseguenza del disturbo, è sempre presente. È per tale motivo che con il tempo sono state formulate diverse teorie sull’argomento. Quella che mi piacerebbe approfondire oggi è la teoria emotiva dell’obesità.

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L’ipocondriaco. Viaggiatore solitario

Spesso al pronto soccorso o dal medico di base si presentano pazienti che si sono già fatti una diagnosi per conto loro…e molto spesso con esito catastrofico. Un mal di stomaco può così diventare il sintomo di una malattia incurabile, senza pensare che la sera prima si è mangiato un fritto pesante. È frequente che ci si prenda gioco nelle corsie degli ospedali di queste persone, ma immaginatevi cosa vuol dire vivere in questo modo. L’ipocondriaco non è un malato immaginario, ma una persona che soffre e l’ipocondria non è una malattia, ma un mezzo di espressione. Come ben spiegato dall’articolo “Ipocondria- silenzi del corpo, rumori dell’anima” , le origini del pensiero ipocondriaco possono avere esordio nell’infanzia e in particolar modo nel rapporto tra il bambino e chi si prende cura di lui: una madre incapace di rispondere in maniera adeguata ai bisogni del figlio o anch’essa ipocondriaca può portare il bambino, nel corso degli anni, a dover badare a se stesso, rispondendo ai segnali del proprio corpo. Il corpo diventa così l’unico oggetto di ansie e preoccupazioni.

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L’attacco di panico. Il terrore nel divenire

Ognuno di noi, ogni essere umano, nell’arco della propria vita percorre determinate tappe, importanti per il proprio sviluppo. In un ottica culturale cristiana, il battesimo rappresenta allora la nascita nella società, la comunione rappresenta una nuova nascita, come individuo attivo, delineando il termine della “prima infanzia” e la cresima rappresenta la fine dell’infanzia verso l’adolescenza (in passato corrispondeva al passaggio nell’età adulta), il matrimonio rappresenta il passaggio dalla propria famiglia d’origine verso una famiglia costituita (e molto probabilmente le lacrime perse dai genitori durante questo rito sono anche di tristezza rispetto alla perdita del proprio\a figlio\a); e così, proseguendo, il battesimo del primo figlio rappresenta, per il genitore, la testimonianza alla società (e quindi a Dio) di essere madre\padre. Infine, l’estrema unzione, simboleggia il tentativo, della società, di arginare le angosce di morte della persona deceduta. 
Ci verrebbe da credere che la religione cristiana sia troppo rigida, piena di ritualità insensate, che non permette all’essere umano di esprimersi.

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Disturbo da Accumulo. Quando conservare diventa una malattia

Che differenza c’è tra una foto che ci ritrae in braccio ai nostri genitori quando avevamo un anno di età e una scatola di biscotti vuota? La maggior parte delle persone risponderebbe che la prima ha un valore affettivo e che quindi non se ne separerebbe mai, mentre la seconda è solo qualcosa da buttare. Per una persona affetta da disturbo da accumulo (DA) tutti gli oggetti hanno una loro ragione d’essere: perciò alla precedente domanda, l’accumulatore (hoarder) riuscirebbe a capire di certo la differenza affettiva tra la foto e la scatola, ma non si priverebbe di quest’ultima, trovandole un’altra utilità o conservandola su di uno scaffale. I pazienti con DA hanno con gli oggetti un rapporto non molto diverso da quello che ha la maggior parte delle persone: tutti siamo affezionati ai nostri ricordi e conserviamo oggetti senza valore intrinseco se non il significato psicologico e affettivo che gli diamo noi; così come spesso capita che la maggior parte di noi occupino inutilmente spazio dentro casa o in cantina con oggetti che non ci servono, ma che un giorno potrebbero tornarci nuovamente utili. Il problema è che i pazienti con DA hanno questo rapporto di forte legame affettivo con un numero esagerato di oggetti e vedono in ognuno di essi “opportunità future”, per cui diviene impossibile separarsene. Allo stesso tempo per gli accumulatori gli oggetti sembrano essere “pezzi di sé”, una parte integrante della propria identità e uno strumento per mantenere un legame con parti della propria vita e con il passato, per coltivare la memoria e continuità del sé.

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