Autore: Dario Maggipinto

Il falso Sé. Modellati nell’ambizione

Ognuno di noi, nel suo percorso di crescita, si è interfacciato per la prima volta in un contesto sociale diverso da quello dei propri genitori, sperimentando per la prima volta le proprie capacità relazionali all’asilo, con persone sconosciute, sino al districarsi in maniera più o meno abile nelle tante pretese sociali lavorative all’italiana. Nella scoperta di un mondo esterno che possiede valori a volte diversi da quelli famigliari, l’individuo costituisce una propria identità sociale che si fonde con l’identità personale. La creazione dell’identità rappresenta, allora, la piena consapevolezza di chi si è, delle proprie origini, dei propri stati emotivi e dei propri pensieri. Sempre più spesso, però, è comune riscontrare in molte persone, in parte anche dentro di noi, una netta scissione tra un’identità che si mostra, che si ama, a cui si crede di appartenere e una parte di sé che si reprime e che soffre, terrorizzata al sol pensiero di mostrarsi (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “l’insicurezza patologica – Ciò che non amo di me“). Si crea un falso sé, ossia un sé ideale a cui l’individuo ambisce, mettendo in pratica un processo di cambiamento dentro di sé rispetto alle proprie ideologie e comportamenti, col solo intento di convincersi di essere diventato il sé tanto ammirato: si crea, dunque, un’armatura (il falso Sé) che potrà proteggere il sé reale, percepito debole e inefficace in una determinata società.

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L’insicurezza patologica. Ciò che non amo di me

L’insicurezza è una condizione emotiva insita nell’uomo da sempre. Come ogni pensiero e vissuto esistente nella vasta gamma emotiva dell’essere umano, anche l’insicurezza adempie ad una funzione ben precisa, rientrando in una sfera cognitiva più evoluta. Ci permette infatti di metterci in discussione e, dunque, evolverci e liberarci da quegli aspetti di noi disfunzionali e immaturi. Non a caso persone definite “troppo sicure di sé” sono caratterizzate da una rigidità mentale che non gli permetterà di maturare bensì di assumere un comportamento prevaricatore nei confronti dell’altro, nel tentativo di far valere i propri pensieri e concetti immaturi. L’insicurezza però può strutturarsi in maniera persistente e pervasiva nella mente di una persona, creando un forte senso di stress e malessere interiore, congiuntamente ad un blocco dell’evoluzione del sé, dovuto alla perenne convinzione di fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Questa tipologia di insicurezza la possiamo ritrovare con lievi intensità nelle persone con un sé strutturato e in maniera predominante in individui con un sé non completamente definito.

Per “Sé” intendiamo quella totalità psichica propria dell’individuo che si sviluppa e si consolida in funzione dell’Io ed emerge tramite il riconoscimento empatico dell’altro, diverso dal Sé; in altre parole è la consapevolezza di sentirsi Sé, con le proprie caratteristiche, e riconoscere gli altri come persone diverse da sé sia nel concreto che nelle relazioni. Il sé e l’autostima si costituiscono attraverso l’amore ricevuto dai propri caregiver,  in quanto il bambino comprende che lui è una persona degna di essere amata tanto quanto è stata amata dal mondo (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Organizzazione borderline di personalità – Alla ricerca di un legame d’amore

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Il senso di colpa. Schiacciati da se stessi

San Michele e il drago, Raffaele Sanzio.

Il possedere o ricercare una colpa, ossia una causa del male, è caratteristico del genere umano. Nelle antiche tribù, ad esempio, il concetto di morte naturale non esisteva ma si supponeva che quella determinata persona moriva per una colpa che aveva commesso dinanzi agli spiriti della natura oppure era vittima di un sortilegio nemico. Con l’avvento della religione cristiana il sentimento di colpa si insidia ancora di più nella società occidentale. Si crea una netta scissione tra pulsioni, desideri e istinti, che vengono relegati nell’inconscio malefico, personificati nel serpente satanico e, sull’altro fronte, la ragione e la coscienziosità che combattono e mettono a tacere le proprie pulsioni, rappresentati dal divino o, in una famosa opera, da San Michele che sconfigge il Drago. Questa impostazione cristiana fonda sul senso di colpa la propria fede, sul pentimento come redenzione, ed ammette la possibilità di cadere nelle proprie pulsionalità, unicamente se subito dopo ci si pente e si chiede perdono. È da questa tipologia culturale che nel 1800 si è sviluppata in tutta europa l’isteria (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “L’isteria – Psicopatologia dei sessi” ), una patologia mentale dove i propri desideri e le proprie pulsioni non potevano essere espresse, se non con il corpo. Il sentimento di colpa nelle donne era predominante e derivava dalle regole ferree della società patriarcale. Con il passare degli anni, il senso di colpa si è sempre di più strutturato intorno a delle regole interne, e non più unicamente esterne.

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Organizzazione Borderline di Personalità
Alla ricerca disperata di un legame d’amore

Il concetto di organizzazione borderline di personalità è ormai da tempo entrato nella quotidianità di ognuno di noi, ammaliati e affascinati da queste personalità tragiche, esplosive e costantemente straripanti. Otto Kernberg individua per la prima volta il concetto di organizzazione borderline, collocandola nel mezzo di un continuum di sviluppo mentale che vede contrapposti da un lato un’organizzazione psicotica (la più primitiva) e all’esatto opposto l’organizzazione nevrotica (la più evoluta, che struttura anche la personalità delle persone definite “sane”). All’interno dell’organizzazione borderline Kernberg vi colloca tutti i disturbi di personalità, compreso il disturbo borderline di personalità (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Disturbo Borderline di Personalità – L’arte del funambolismo“).

Senza entrare, dunque, nello specifico del disturbo borderline, l’organizzazione di personalità borderline è possibile riconoscerla proprio dalla sua tragicità nel viversi qualsiasi esperienza emotiva, vissuta come una delle esperienze più importanti della propria vita, e coinvolgendo ogni persona che lo circonda come attore di questa esperienza.

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La colite psicosomatica
L’evacuazione di un sè non accettato

Nell’arco della propria vita, chiunque, dal più sensibile al più razionale, avrà avuto modo di constatare che il proprio corpo e i propri organi sono, molte volte, il rappresentante simbolico di uno stato emotivo inesprimibile verbalmente, divenendo l’organo stesso il mezzo con cui parlare. Ce ne rendiamo conto quando il nostro cuore batte forte dinanzi ad un carissimo amico di cui siamo innamorati ma di cui non possiamo prenderne coscienza perché spaventati dalle conseguenze, oppure dinanzi ad un gran mal di testa, dopo che ci siamo detti “Basta, non ci pensare” (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La cefalea psicosomatica – La logica che uccide”) , o davanti ad una gastrite lancinante causata dai nostri vani tentativi di reprimere vissuti di rabbia verso una persona cara (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La gastrite psicosomatica – Il dolore delle emozioni indigeribili” ). Un organo che viene preso molto spesso in considerazione, dinanzi alle proprie angosce, è l’intestino, rappresentante non solo dei “bassi istinti” ma anche della funzionalità che esso ricopre: eliminare le scorie e, dunque, i vissuti e le parti di sé inaccettabili, attraverso le coliti. 

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Le fiabe in psicoanalisi
Jack ed il fagiolo magico

In una casetta di pietra vivevano, molti e poi molti anni fa, una povera vedova e il suo unico figlio, che si chiamava Jack. Non possedevano che una mucca. La mucca dava loro ogni giorno una certa quantità di latte, e con la vendita del latte i due campavano, seppure miseramente.Ma la mucca invecchiava, e allora la vedova l’affidò al figlio perché la portasse al mercato, dove avrebbe potuto venderla.

(Per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo La funzione psicologica della fiaba – Il regno del proprio inconscio)

La fiaba di Jack e il fagiolo magico introduce uno stadio del bambino ben preciso. Descrive come in passato viveva una coppia madre-bambino, dove l’unico bene posseduto era una mucca, rimandando alla relazione simbiotica dell’allattamento madre-bambino. La fiaba di Jack e il fagiolo magico è prettamente rivolta al genere maschile anche se, come tutte le fiabe, ogni bambino può identificarsi in vari personaggi della fiaba per poter elaborare determinate dinamiche inconsce. In questo caso, la fiaba descrive come il bambino debba attraversare varie fasi per diventare un vero uomo. La storia inizia dunque dalla necessità di superare la fase orale, ossia quella fase paradisiaca dove il bambino sente soddisfati tutti i suoi bisogni, dipendendo dalla madre. La mucca, allegoria della madre che allatta, è invecchiata e non dà più latte (rimandando allo svezzamento), pertanto il bambino si trova ad entrare in una nuova fase della propria vita, dove può contare soltanto su sé stesso e sul proprio corpo per il soddisfacimento dei propri bisogni, segnando la fine dell’infanzia (uscire fuori di casa).

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Il vero senso delle fiabe. Cappuccetto Rosso in Psicoanalisi

 “C’era una volta una dolce bimbetta; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna che non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e poiché‚ le donava tanto, ed ella non voleva portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso. Un giorno sua madre le disse: “Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Sii gentile, salutala per me, e va’ da brava senza uscire di strada, se no cadi, rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote. (…)”

(Per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo La funzione psicologica della fiaba – Il regno del proprio inconscio)

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La funzione psicologica della fiaba. Il regno del proprio inconscio

“C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un regno…”

Ogni bambino, nel proprio percorso di crescita, si ritrova ad affrontare angosce e fantasie relative alla propria fase di sviluppo, superando delusioni narcisistiche, dilemmi edipici, rivalità fraterne, dipendenze infantili, conseguendo una propria individualità, un proprio valore ed un proprio senso morale, effettuando dunque quel passaggio necessario da identità unicamente famigliare (dove la propria identità è data in relazione al sistema famigliare) ad un’identità individuale (dove la propria identità è autocostituita). Attraverso i secoli, durante i quali, con le successive rielaborazioni, diventarono sempre più raffinate, le fiabe finirono per trasmettere nello stesso tempo significati palesi e velati, finirono cioè per parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità umana. La fiaba si occupa, infatti, di problemi umani universali, soprattutto di quelli che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano del suo Io in sviluppo e ne incoraggiano la crescita, placando nel contempo pressioni consce ed inconsce. Il bambino può giungere alla conoscenza ed alla capacità di conoscere se stesso non attraverso una comprensione razionale della natura e dei contenuti inconsci, ma familiarizzandosi con esso, effettuando sogni ad occhi aperti: riflettendo, fantasticando e rielaborando intorno ad adeguati elementi narrativi in risposta a determinate pressioni inconsce. 

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L’attacco di panico. Il terrore nel divenire

Ognuno di noi, ogni essere umano, nell’arco della propria vita percorre determinate tappe, importanti per il proprio sviluppo. In un ottica culturale cristiana, il battesimo rappresenta allora la nascita nella società, la comunione rappresenta una nuova nascita, come individuo attivo, delineando il termine della “prima infanzia” e la cresima rappresenta la fine dell’infanzia verso l’adolescenza (in passato corrispondeva al passaggio nell’età adulta), il matrimonio rappresenta il passaggio dalla propria famiglia d’origine verso una famiglia costituita (e molto probabilmente le lacrime perse dai genitori durante questo rito sono anche di tristezza rispetto alla perdita del proprio\a figlio\a); e così, proseguendo, il battesimo del primo figlio rappresenta, per il genitore, la testimonianza alla società (e quindi a Dio) di essere madre\padre. Infine, l’estrema unzione, simboleggia il tentativo, della società, di arginare le angosce di morte della persona deceduta. 
Ci verrebbe da credere che la religione cristiana sia troppo rigida, piena di ritualità insensate, che non permette all’essere umano di esprimersi.

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La gastrite psicosomatica. Il dolore delle emozioni indigeribili

Nel 1500, il medico naturalista e filosofo Paracelso paragonò lo stomaco ad un laboratorio alchemico, ossia un forno che permette di elaborare e trasformare gli elementi grezzi in sostanze nutritive ed essenziali per l’organismo fisico e dell’anima, attraverso un fuoco interiore. Lo psicoanalista Wilfred Bion, a distanza di secoli, paragonò l’apparato digerente a quello psichico, evidenziando un processo comune ai due meccanismi: l’introiettare dall’ambiente esterno un’esperienza grezza per poi elaborarla e trasformarla in elementi digeribili, emotivi, perlopiù funzionali all’organismo psicosomatico. D’altronde, nei primi anni di vita, il neonato inizierà a relazionarsi con la realtà attraverso l’esperienza del nutrimento, caricando di forti cariche emotive il cibo introiettato (si rimanda agli articoli: Obesità – L’imbottitura dell’anima  e Anoressia – Tra narcisismo e conflitti interiori) , ed associando la sensazione di fame a forti sentimenti di angoscia di morte e destrutturazione, il momento del nutrimento a un forte appagamento dei suoi desideri di vita e il sentimento di sazietà ad un momento di sicurezza.

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