Ode al silenzio
Il silenzio come benessere personale

Non devi per forza dire la tua. Non devi comunicare al mondo ogni tuo pensiero: non ce n’è davvero bisogno. Piuttosto, rivendica il tuo diritto al silenzio e al segreto.

A questo riguardo c’è un passaggio fulminante in “Pourparler” di Gilles Deleuze, intorno a quelle che lui chiama le “coppie maledette”.

Quelle, cioè, in cui uno dei due partner, di fronte a uno stato d’animo particolare dell’altro, magari pensieroso o nostalgico, lo pressa insistentemente chiedendogli di esprimersi, di dire tutto, di raccontarsi subito e su ogni cosa, in una vera e propria inquisizione domestica.

“A volte ci comportiamo come se le persone non potessero esprimersi. Ma, in realtà, non smettono mai di esprimersi. Siamo trafitti da parole inutili, quantità folli di parole e immagini. La stupidità non è mai muta o cieca. Il problema non è più consentire alle persone di esprimersi, ma fornire piccoli intervalli di solitudine e silenzio in cui possano infine trovare qualcosa da dire”.

Abbiamo tutti un bisogno vitale di questi interstizi di vuoto. Siamo travolti da giri immensi di “parole vuote ma doppiate”, triplicate, centuplicate, in una ripetizione infinita delle stesse frasi: il fenomeno delle frasi doppiate sui social è un indice del problema, in cui tutti prestano il proprio volto a un singolo tormentone. Ci si sente liberi in questa iper-espressione, che in realtà è soltanto una forma raffinata di censura.

Prosegue infatti Deleuze: “Le forze della repressione non impediscono alle persone di esprimersi, anzi le costringono ad esprimersi”.

Bisognerebbe allora, spiega il filosofo francese, imparare ad assaporare di nuovo la “dolcezza di non avere niente da dire, il diritto di non avere niente da dire”, perché è soltanto a partire da quell’impotenza che può nascere “qualcosa di raro o rarefatto, che meriti davvero di essere detto”.

E se pensassimo ad un’equazione lineare tra silenzio e salute?

Il desiderio di stare bene, nella prospettiva individualista e competitiva del sistema culturale in cui viviamo oggi viene visto da tanti come un desiderio di primeggiare, con strane sfumature e pregiudizi. Il benessere, però, non è una competizione, ma qualcosa di estremamente individuale e intimo. Il mio personale benessere psicofisico non è raggiungibile alle spese di qualcun altro e, soprattutto, non è così facilmente misurabile per poterne stilare una graduatoria globale (oltre che uguale per tutti). Siamo invitati a non considerare il silenzio – e quindi la nostra salute – come un fattore determinante rispetto al quale prendere decisioni. Ma allora ci si chiede in base a cosa dovremmo agire e come possiamo fare a capire cosa è bene per noi stessi.

Su questa base si innesta il complesso discorso sul significato contemporaneo di salute. La salute, infatti, è passata dall’essere un problema della medicina, a uno stile di vita. Ma essere sani significa semplicemente non avere patologie, la minore possibilità nel tempo di svilupparne o qualcosa di diverso ancora?

Ricordiamo che la salute non è un aspetto marginale della nostra esistenza, non è nemmeno un capriccio che imponiamo alla nostra vita: è, semmai, la sua condizione di esistenza.

Se è vero che “gli strumenti del padrone non ne smantelleranno mai la casa» come cita Audre Lorde, abbiamo bisogno di parole nuove per compiere un ultimo passaggio: trasformare il linguaggio da luogo di silenzio e oppressione a occasione di dialogo, liberante per tutte le soggettività.

Dott.ssa Giulia Ingrosso

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