L’accettazione dell’imperfezione
Nuovi spiragli tra le crepe

Quest’anno tra le tracce di maturità è stato proposta la celebre opera autobiografica di Rita Levi Montalcini “Elogio dell’imperfezione” , dove la scienziata racconta quanto gli inciampi e i limiti abbiano rappresentato per la sua carriera e vita personale delle opportunità di crescita e scoperta uniche.

Oggi più che mai, in una società dove la richiesta ad essere performanti è un assunto e non un’opzione, già a partire dalle scuole, riflettere su tale tema risulta essenziale. Moltissimi adolescenti di fronte alla difficoltà di aderire agli standard sociali e alle aspettative genitoriali si trovano sprovvisti di strumenti per poter procedere nella loro traiettoria di sviluppo. Sempre più frequente è il fenomeno del ritiro sociale che rappresenta una massiccia strategia risolutiva messa in campo dall’adolescente alle prese con sentimenti di vergogna e di inadeguatezza troppo soverchianti per essere affrontati. L’evitamento diventa quindi un espediente per sottrarsi al rispecchiamento di un’immagine di sé imperfetta allo sguardo di una società sempre più direzionata all’omologazione e alla perdita dell’unicità. Ciò che scatta nella mente dell’adolescente, alle prese con la sua costruzione identitaria, è “se non sono perfetto, allora non valgo nulla”. In fin dei conti tale vissuto non riguarda solo gli adolescenti, ma ciascuno di noi. Il desiderio di perfezione è segretamente, o meno, condiviso da tutti quanti; in questo senso in termini collettivi e personali concorriamo alla sua espressione, come se ci fosse un mandato intergenerazionale e sociale a cui aderire. Spesso nella ricerca costante della perfezione ci si sente stretti in qualcosa che sinceramente non ci appartiene, ma al tempo stesso vittime di un imperativo che non permette deviazioni da quanto pensiamo sia deciso per noi. Winnicott introduceva il concetto di Falso Sé come esito di un processo di allineamento da parte del bambino alle richieste e alle aspettative genitoriali, non permettendo di fatto l’espressione dei suoi spontanei bisogni. Prendendo in prestito tale concettualizzazione, il mondo d’oggi spinge in tale direzione definendo tempi e modi per poter essere socialmente accettabili, non curandosi fino in fondo di quanto tali richieste pesino su ciascun individuo, costretto poi a fare i conti con un senso di inadeguatezza persistente. Persino il dolore viene demonizzato come un elemento disturbante al perfetto e imperturbabile scorrere della vita. Tuttavia le battute d’arresto si verificano anche nei percorsi più brillanti e proprio lì, in quei punti di rottura si insinuano nuove opportunità.

Una fiaba indiana narra: Ogni giorno una donna andava a prendere l’acqua per il suo piccolo villaggio. Il fiume non era poi così distante e bastavano due ore per raggiungerlo. Portava l’acqua in due vasi di terracotta, sospesi alle estremità di un bastone che teneva sulle spalle. Arrivava però a destinazione solo un vaso e mezzo d’acqua e non due. Infatti mentre il vaso di destra era perfettamente integro, il vaso di sinistra aveva una crepa e durante il tragitto perdeva metà del suo contenuto. La donna non sembrava dolersene e tutti i giorni portava l’acqua al villaggio. Naturalmente, il vaso perfetto era orgoglioso dei propri risultati, mentre il povero vaso crepato di vergognava del proprio difetto, ed era avvilito di saper fare solo la metà di ciò che avrebbe dovuto fare, di ciò che ci si aspettava da lui. Passarono ben due anni prima che trovasse il coraggio di parlare alla donna. Finalmente un giorno, lungo il cammino, le disse “Mi vergogno di me stesso, perché questa crepa nel mio fianco fa sì che l’acqua fuoriesca lungo tutta la strada verso il villaggio”. La donna non si scompose, continuò a camminare e rispose sorridendo “Ti sei accorto di quanti bei fiori ci sono dalla parte sinistra del sentiero? Io ho sempre saputo di questa tua caratteristica, perciò ho piantato dei semi dal tuo lato del sentiero e ogni giorno tu li innaffi. In questi due anni grazie a te, ho potuto raccogliere tanti bei fiori e decorare il nostro villaggio. Sai fare cose che il vaso integro non potrà mai fare. Se tu non fossi come sei, il nostro villaggio non sarebbe così bello.”

Questa fiaba ci pone di fronte all’evidenza che le crepe dei nostri vasi permettono la nascita di parti che senza tale sofferenza, senza uno scollamento da quello che è il nostro ideale di noi, non avrebbero luogo di esprimersi o esisteste. Troppo spesso nella ricerca di perfezione viviamo i nostri limiti come delle condanne e vediamo nel cambiamento la possibilità di poter eliminare o ridurre i propri aspetti carenziali; porsi in un’ottica di crescita invece permette di leggere negli inciampi l’occasione di inventare nuovi passi di danza laddove non ce lo saremmo aspettati. Accettare i propri limiti ci rende liberi nell’espressione di noi stessi, scaricandoci di quel peso che si sente quando si è in vetta dopo una lunga arrampicata a ritmo marziale. Riprendendo la fiaba, i fiori nati sul tragitto percorso dalla donna con il vaso crepato rappresentano le sorprendenti potenzialità che abbiamo, ma che si celano nell’ombra di ciò che non accettiamo di noi perché non perfettamente calzante con ideali convenzionali. Le crepe possono rappresentare sì un punto di rottura, ma anche la possibilità di un respiro nuovo, di increspature che permettono al sole di arrivare laddove il passaggio sembrava aprioristicamente serrato.

Per approfondire:

Levi-Montalicini, R. (1987) Elogio dell’imperfezione. Baldini-Castoldi. Milano

Chelo, A. (2016)Il dono dell’imperfezione. Feltrinelli. Milano

Dott.ssa Valentina Merola

email: vale.merola@hotmail.it

Psicologa a Roma

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