Settembre del ’45. Un giovane uomo, 25 anni, fattezze tanto perfette da sembrare un dipinto, reduce da uno dei conflitti mondiali più sanguinosi che la storia dell’umanità intera ricordi. Aveva appena fatto rientro a casa, accolto dalla gioia incontenibile di quella famiglia dall’amore ingombrante, che per anni, arrancando alla cieca nell’angoscia, si era addormentata nella notte sognando senza sosta il suo ritorno dal fronte. Ma quell’uomo era gravemente ammalato e non lo sapeva ancora. Una breve quanto intensa esistenza la sua, spazzata via una settimana dopo da una polmonite che non gli lasciò alcuno scampo. Per quella famiglia, è il crollo del domani, il venir meno di ogni speranza e progettualità. La chiusura del mondo. E fu così, che un velo scuro appannò per sempre quegli occhi verdi color del mare in una donna, che nello spazio artico di quello sguardo finì col congelare l’adorato e mai dimenticato fratello.
Giovani adolescenti a confronto che dinanzi all’ultimo modello di Iphone appena acquistato da una di loro: “Guarda qui… finalmente! Sapessi quanto lo volevo”! L’altra, fra l’incredulità e l’invidia, le fa eco appena un istante dopo: “Noo! Spettacolare! Lo voglio anch’io”! Alla voce del verbo volere: “Essere intenzionato a ottenere qualcosa. Desiderare qualcosa”. Ma questa voglia, questa bramosia neanche tanto velata, ha davvero a che fare con la dimensione del desiderio, o è tutta un’altra storia? E cosa s’intende con la parola desiderio? Prima di questo, mi corre l’obbligo di effettuare una constatazione necessaria.
L’era ipermoderna in cui siamo immersi, ci espone costantemente al convincimento (peraltro, errato) che la sempre maggiore accessibilità ai beni di consumo, non incontri nella sua imperterrita scalata verso l’alto, alcun impedimento o confine di sorta. Un’epoca come la nostra, in cui ogni “oggetto” è ormai sempre più facilmente fruibile e raggiungibile, finisce con l’impattare violentemente contro un dato via via crescente che ci coinvolge indistintamente tutti: l’esperienza del limite, è una condizione sempre meno presente nell’esistenza dell’uomo del terzo millennio. Se il concetto di “perdita” – simbolica o meno che sia – di un oggetto, normalmente, induce un momento di fermo in colui che la subisce (e che si appresta così ad attraversare il percorso tortuoso e doloroso dell’elaborazione luttuosa), è altrettanto vero che oggi l’incontro con la perdita, della cosa o dell’altro, finisce col cedere il passo alla sua tassativa, febbrile sostituzione, che si fa azione compulsiva e improrogabile. Il movimento psichico è quello della fuga in avanti, alla ricerca di un nuovo oggetto vicario che possegga o richiami anche solo alla lontana, un aspetto di quello appena andato perduto.
Ciò rende bene la cifra dell’illusione in cui l’uomo è miseramente destinato a cadere, un’illusione figlia del capitalismo mossa dal convincimento che nulla abbia il carattere della singolarità, dell’unicità, poiché tutto, al giorno d’oggi, si fa “pezzo” sostituibile. Il mero componente d’un insieme meccanizzato e privato della sua anima. Il risultato?
È un’entità assai distante dal desiderio e ben più vicina al godimento che travalica gli argini e che richiede di essere esaudito tempestivamente. Un godimento che ha il suono di una schiavitù, che non conosce attesa o frustrazione, ma che si pone come ego – centrato, autisticamente accartocciato al suo interno. Ripiegato su se stesso, è costantemente impegnato a confermare la totale mancanza di limite al suo pieno soddisfacimento. L’esistenza di un limite fondante è qui rifiutata, denegata. Eppure, un “desiderio” che faccia difetto del senso del limite, il “desiderio” spinto dall’ostinato convincimento che tutto può fare e tutto può essere, non può certo definirsi tale, finendo bensì con lo svuotarsi dell’essenza stessa da cui germoglia il vero desiderio: ed ecco che il primo si fa allora capriccio sterile, volontà erosa dall’insoddisfazione di fondo che la sorregge e che non gli concede tregua. È un albero inaridito. Un godimento senza desiderio.
A dettare il netto divario fra godimento effimero e desiderio autentico, ci pensa una norma tacitamente acquisita all’interno di ogni società che voglia dirsi civile: è la legge che permette all’uomo di confrontarsi col proprio limite e che gli ricorda che non può essere esattamente tutto ciò che vuole, né avere accesso indistinto a tutto quel che brama senza differenziazione alcuna. C’è un discrimine, un limen oltre il quale non è consentito passare. È la legge della castrazione, una legge che introduce l’uomo all’esperienza dell’impossibile, una legge non scritta che vieta all’umano di godere in-distintamente di tutto: è la legge che impedisce che l’incesto si compia, una legge che lo condanna aspramente e lo rende veto. Paradossalmente, sarà proprio questa proibizione fondante, a dar vita al desiderio pienamente detto, rendendolo esperienza possibile. Il desiderio è intanto una dimensione espansiva, generativa, che produce vita e che la vita la moltiplica: a dispetto del godimento – che parte da sé e in sé s’incancrenisce, producendo atmosfere mortifere – il desiderio autentico implica sempre la presenza dell’altro significativo, poiché per sua intima costituzione, il desiderio ha una natura relazionale. Il desiderio si fonda perciò sempre a partenza dall’altro e nell’altro ed il contatto con esso permette un allargamento degli orizzonti e del mondo che la persona vive. Da quell’istante, niente è più come prima.
A produrre desiderio, può essere idealmente qualunque tipo di incontro con l’altro, sia esso rappresentato da un viaggio, da un amore, da un libro, dalla scuola, da un amico o da un familiare. Ciascuno di questi incontri può trasformare e allargare i nostri orizzonti, poiché ci consente di trovare nuove parole per decodificare il mondo e dotarlo di quel senso che gli mancava. L’atto del desiderio possiede in sé una forza motrice creatrice, una spinta vitale che trascina verso l’esterno e che quasi “s’impossessa” dell’Io, fino a disorientarlo, fargli perdere il proprio baricentro, come ad esempio accade quando sperimentiamo sulla nostra pelle le dinamiche dell’innamoramento e ad esso cediamo, fino al punto che nessuno di noi “sceglie” di chi innamorarsi. Nel desiderio non c’è perciò alcun calcolo ragionato o imbrigliato dalle catene del giudizio morale (“qui è meglio di lì”), ma in esso regna piuttosto un aspetto d’instabilità e incertezza sottesa che lo distanzia e differenzia nettamente dalle rigide sequenze del godimento. Per Lacan, ogni forma di allontanamento o tradimento della “legge” del nostro, personale desiderio – verso il cui valore ciascuno di noi ha una grande responsabilità – sarebbe indicativo del complesso di sintomi psichici che la persona porta con sé e che in qualche modo parlano al suo posto. Ne è un esempio certamente infelice la trasparenza del corpo della giovane anoressica, che nel disperato tentativo di ricerca di parole e di sensi negli altri significativi attorno a lei – tutti strenuamente incentrati sul suo ostinato rifiuto del cibo – fa uso del suo soma per testare l’amore dell’altro. Un po’ come se quella sua chiusura alla vita sottintendesse una domanda (d’amore) che esige una risposta partecipata dell’altro. Una parola, che si fa allora segno d’amore. Nell’altro, nel desiderio dell’altro, è deposta la personale domanda di riconoscimento: se l’altro vi risponde, c’è una legittimazione all’esistenza. L’anoressica domanda: “Ho un qualche valore per te? Conto davvero qualcosa per te? Se io scomparissi, la tua esistenza sarebbe la stessa anche senza di me”? E l’anoressica, nel suo attendere una risposta dal “suo” – altro significativo (una madre, un padre), conferisce all’oggetto del suo desiderio d’amore il carattere dell’unicità, dell’esclusività: esso, in quanto oggetto sfuggente e non assimilabile, resiste ad ogni possibile baratto, facendosi soggettivamente in-sostituibile.
Per approfondire
Recalcati M. Ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano
Recalcati M. Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna. Raffaello Cortina Editore, Milano
“Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L’archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili dell’inconscio, ma cambiano forma continuamente“.
Buio o luce. Ragione o sentimento. Introversione o estroversione. Aspetti, questi, che (evidentemente) viaggiano in direzione contrapposta; dicotomie di cui, ciascuno di noi, sceglie l’estremo che più gli appartiene e dentro cui sostare, poiché più confacente alla propria natura. Sono dimensioni che, nelle nostre esistenze, finiscono molte volte con l’essere polarizzate, poiché parti integranti delle rispettive inclinazioni di base. Sono parole che contengono e condensano un’essenza, che tracciano un ritratto seppur appena abbozzato di noi e delineano confini. Parole che raccontano mondi e modi di essere spesso in antitesi fra loro. Ma a ben guardare, nel profondo della nostra psiche, difficilmente il tutto possiede caratteri così netti.
Facendo un rapido salto all’indietro, è possibile scorgere nelle prime pratiche d’incisione del derma, significati ben precisi, come quello di fornire preziose informazioni sullo status sociale e sul gruppo di appartenenza della persona che le portava su di sé; ancora, quelle stesse tecniche di alterazione corporea, venivano impiegate come vere e proprie pratiche curative per la psiche ed il soma, (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il tatuaggio – Storie incise sulla pelle”) attribuendo così a quei segni complessi, funzioni al limite del magico. Certamente, ad oggi, la diffusa moda del momento – che incita sempre più tristemente all’omologazione ed alla sterile quanto esibizionistica mostra di sé, spesso “traducibile” nell’ostentazione di un involucro iper curato e opportunamente “segnato” – ha come spersonalizzato e svuotato di senso l’antica arte del tatuaggio.
Una vita sostanzialmente “normale”: una buona adesione al reale, un lavoro soddisfacente, una fitta rete di relazioni. Che ciononostante, a ben guardare, rimangono tutte in superficie. Ci sono pazienti, il cui mondo psichico appare come scollegato da tutto il resto: essi sembrano non entrare mai in contatto con la dimensione squisitamente affettiva della propria esistenza, dimostrando piuttosto di preferirle un andamento più piatto. Quasi meccanico.
In cucina. Lei, che le chiedeva sempre di assaggiare la pasta per verificare se fosse finalmente al dente e se mancasse o meno di sale, eh che nel farlo, sorriso complice e sornione, le porgeva una manciata di spaghetti “sapurìti”, direttamente prelevati dal generoso pentolone del sabato col suo forchettone di legno, ormai consumato dal tempo. La felicità racchiusa in un rituale semplice. Probabilmente, uno dei ricordi più intrisi d’amore e dolcezza, che parlano di Irene e di sua nonna. Un fotogramma prezioso in cui tutto quel rapporto appare come condensato. Ma quando perdiamo qualcuno o qualcosa d’amato, che peso assume un ricordo?
Guardando al passato, quando ci si accostava al termine anoressia (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “L’anoressia – Dallo svezzamento al rifiuto del cibo”), l’associazione quasi scontata era all’età adolescenziale, intesa come la fase ma anche come “il luogo”, entro cui il disturbo finiva con il convogliarsi massimamente. Di contro, l’osservazione clinica odierna, pur suggerendoci di mantenere ugualmente la guardia alta visto il delicato momento di transizione che l’adolescenza delineerebbe, quasi c’impone di spostare parecchio all’indietro l’esordio di quella che oggi si pone come una delle patologie più gravi e complesse del nostro tempo.
Partiamo dal basso. O se volete da lontano, proprio come fa quel nostro paziente in seduta. Regressione: deriva dal verbo regredire. E’ un movimento all’indietro, un andare a ritroso, che si ripete, lento e doloroso, ma pur sempre e nonostante tutto, necessario. In ambito analitico, questo particolare andamento è inteso come un tornare a stadi di sviluppo psichico precedenti e generalmente la sua presenza è vista in un’accezione decisamente negativa. Già Freud ad esempio riteneva il movimento come ostacolante, un inconveniente decisamente spiacevole che, quando finiva col popolare la stanza d’analisi, rischiava d’impedire il progresso dei processi psichici. Un regredire contrapposto all’integrare. Ma è davvero così?
Una delle più interessanti formulazioni del termine è certamente quella proposta da D. Winnicott: secondo il celebre pediatra e psicoanalista, alcuni pazienti presentano un bisogno di regredire nella stanza di terapia assai maggiore di altri e questo in quanto il bambino che alberga in loro, a suo tempo, ha fatto esperienza di un ambiente rivelatosi profondamente incapace di fornire il giusto appoggio e le dovute cure atte a permettere a quell’infante di esperire il mondo pienamente su di sé.
1993. Solo tre anni prima, il giovane cantautore fiorentino aveva trionfato con Disperato all’ultimo Festival di Sanremo piazzandosi primo nella sezione “Novità”. Adesso, quel brano contenuto nel suo secondo lavoro, sembrava destinato a destare scalpore a partenza dal fiero titolo che portava. Vaffanculo. Questo brano, con oltre 800 mila copie vendute, all’epoca rappresentò una vera e propria rivoluzione nel panorama musicale italiano: Masini attua una rottura dagli schemi precedenti, intanto grazie all’uso libero del suo titolo, ripetutamente urlato all’interno del testo e subito dopo attraverso gli ingombranti contenuti che racchiudeva in sé e che a suo tempo fecero (non poco) storcere il naso agli addetti ai lavori, ma anche ai fautori del perbenismo più estremo.
Siamo nei primi anni ’90 e con Vaffanculo viene sdoganato l’uso delle parolacce all’interno delle canzoni. In particolare, questa, di canzone, incontrò non pochi ostacoli sul suo cammino prima d’imporsi al vasto pubblico che seguiva adorante il cantante. La stampa di allora – preoccupata dalla disarmante verità dei testi di Masini, la sua vera forza – tentò di farlo passare come un artista volgare e portatore di negatività. Uno sfigato, insomma.
– Pà. Dammi le chiavi della macchina. Devo uscire.
– E dove vai?
– Vado. Esco. Dammi le chiavi.
E’ da frasi come queste che mi figuro l’inizio di quel viaggio metaforico – dentro e fuori di sé – a cui ogni figlio è prima o poi chiamato, ed è sempre da qui che hanno avvio alcune mie riflessioni, la cui portata mi spinge a partire da molto lontano. Ma facciamo un passo indietro. Un tempo, l’imperativo “dammi”, non era forse impiegato in via esclusiva dal vecchio pater familias? Una forma verbale, questa, che – paradossalmente – laddove fosse oggi pronunciata da un padre al figlio, suonerebbe sempre più in netta controtendenza rispetto alla realtà in cui siamo immersi. Se difatti nella visione ormai passata e più tradizionalmente intesa come patriarcale, il padre era identificato in colui che emanava le punizioni più severe e da cui discendevano le sorti del figlio in virtù del potere indiscutibile della legge, per converso, quello di oggi è un padre che vive in tutt’altra era. Veloce. Pulsionale. Sovversiva. In quest’era, evidentemente, non vi è più posto per il differimento della gratificazione del desiderio, cosicché il figlio è sempre, prontamente, soddisfatto (per un approfondimento si rimanda agli articoli “Il padre – Un’identità evaporata in questo nostro tempo” e “Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre”).
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