Autore: Carmela Lucia Marafioti

Infanzie sottratte. Il prezzo di un’educazione violenta

Succede che, se un bambino subìsce violenza, di qualunque genere essa sia, egli è costretto a bandire quell’esperienza traumatica dalla propria coscienza, gettandone il ricordo nel posto più lontano che può (per un approfondimento si rimanda all’articolo Dissociazione e trauma – Come se non fosse mai accaduto), così da garantir-si quantomeno una pseudo – sopravvivenza psichica. Si, perché in fondo, ciascuno fa quel che può. Figurarsi un bambino. E quando i responsabili di quell’ abuso più o meno tacito (per un approfondimento si rimanda all’articolo Le possibili conseguenze di un abuso – Mi fido di te?) sono coloro che dovrebbero essere quei (potenziali) garanti di un’infanzia felice, ecco che tutto, nella vita e nella mente dell’infante, si complica, tanto che sarà chiamato a trovare una qualche soluzione che gli consenta di amare ancora i propri genitori. Nonostante tutto.

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Relazioni terapeutiche. Riflessioni su un caso di buona separazione

Mi ero domandata più volte come sarebbe stato, provando a immaginare cosa e come lo avremmo vissuto tanto io quanto loro; un complesso di pensieri sottesi che divenne via via sempre più tangibile man mano che il momento della separazione dai miei pazienti si approssimava. Tutta una serie d’importanti accadimenti mi aveva portato ad interrogarmi nel profondo sull’opportunità o meno di continuare a seguirli in quel contesto, viste le non poche difficoltà logistiche e, in special modo, tutto ciò che da quelle era derivato. Fintanto che, un giorno di non molto tempo fa, a malincuore ma al contempo anche come “sollevata” dall’aver fatto finalmente chiarezza, mi accorsi di avere maturato la decisione di terminare, e di lasciare che i miei pazienti fossero così riassegnati e seguiti dai miei validi colleghi, geograficamente più vicini. Chiaramente, prima d’ora non avevo mai sperimentato su di me l’esperienza del distacco dai miei pazienti, e nonostante nei mesi precedenti mi fossi in qualche modo “allenata” psichicamente per quell’accadimento venturo, nei fatti, poi, la cosa si rivelò assai diversa da come me l’ero figurata, stupendomi positivamente.  E’ il giorno del nostro congedo e la mia paziente, una volta occupato comodamente il suo posto, con un sorriso velatamente malinconico mi confida di avermi portato un piccolo pensiero: in un attimo prende da sotto al tavolo una busta a tema natalizio – di cui evidentemente, al momento di accoglierla, non mi ero affatto accorta – e da lì estrae una bottiglia di olio purissimo, ricavato dai rigogliosi alberi d’ulivo della sua campagna.

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Nella stanza d’analisi. La svolta di un agito

Beatrice si presenta per il primo colloquio con diversi minuti d’anticipo. Bussa tutt’a un tratto ed io sono come presa di soprassalto, faccio per alzarmi, così da accoglierla sulla porta, ma non ne ho il tempo. La paziente è già entrata. Sono un po’ spiazzata, ma chiaramente mi accingo a darle la mano e a presentarmi prima di chiudere la porta alla mie spalle: lei si è già accomodata sulla sedia senza neppure ricambiare il mio tentativo di saluto. Il tutto senza avermi mai guardata negli occhi. Mi scruta da dietro i suoi grandi occhiali scuri, Beatrice, quegli occhiali che terrà per l’intera durata del primo colloquio e che immediatamente richiamano alla mia memoria quelli della Mondaini, ma i suoi sono solo timidi e frammentari accenni di uno sguardo che stenta a concedermi. La paziente è rigida, come avvolta dentro ad un guscio protettivo, addosso avverto tutta quella sua chiusura mista ad un senso di vergogna che ancora non so “dove” collocare.

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Pelle e Psoriasi, Un fortino per le emozioni

La pelle: punto di contatto ma anche punto di confine fra noi e l’altro, fra il dentro e il fuori. Costituendo un involucro di protezione per i nostri organi interni, accanto alla funzione di rivestimento corporeo, a quella di termoregolazione e di massiccia difesa da ogni sorta di aggressione esterna, dobbiamo anche pensare che la nostra cute possiede una fondamentale funzione in campo relazionale. Facendo ricorso ad un po’ d’inventiva potremmo quasi associarla ad una fisarmonica, che ora allunga e ora accorcia le sue braccia immaginarie, modulando opportunamente le distanze da tenere nei contesti più diversi in cui si trovi immersa: proviamo a figurarci anche solo per un attimo, come durante un rapporto sessuale fra due amanti quei confini siano ridotti al minimo, quando la pelle dell’uno sembra quasi fondersi con quella dell’altro, prestandosi così ad una piena “esposizione”.

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Il padre. Un’identità evaporata in questo nostro tempo

Un figlio, un padre. Quel figlio si rivolge al padre chiamandolo ripetutamente per nome, proprio come stesse parlando ad un amico, e lo fa lasciando intendere che quella che io vedo compiersi sotto i miei occhi, sia in realtà una consuetudine ormai consolidata nel loro rapporto. Il ragazzo non tradisce alcun ipotetico o voluto tono giocoso del momento a spiegazione di quella che io, dall’esterno, reputo un’attitudine piuttosto insolita.
E mi viene in mente che in un tempo decisamente lontanissimo dal nostro, quello stesso figlio si sarebbe rivolto al proprio padre dandogli del “Voi”, senza dubbio in nome di un timore reverenziale in cui il rispetto verso il proprio genitore era tutto intriso di paura e che in fondo la diceva lunga su quanto distanti si fosse allora dalla possibilità di creare una qualche forma di intimità relazionale anche solo accennata, cosa che normalmente finiva invece col cedere il passo ad algide e formali comunicazioni.

Di certo, quello appena tracciato è un esempio che svela usanze e tendenze fortunatamente ormai del tutto scomparse ed in cui, in un’epoca di assoluta estremizzazione della norma, la facoltà di decidere della vita così come della morte dei suoi discendenti, era un’esclusiva riservata al vecchio padre di famiglia. Ma ci si potrebbe domandare: In un’era come la nostra dominata invece da una cultura che esalta l’edonismo più sfrenato, che fine ha fatto la legge del padre? Quella a cui fa riferimento Massimo Recalcati è però l’unica legge imperversante nel tempo edipico (per un approfondimento si rimanda all’articolo Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre sulla rivista di Settembre 2015).

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La madre. Una morbida danza fra assenza e presenza

Oggi vi parlerò di madri. Ma di madri un po’ diverse da quelle idealmente tratteggiate sui libri di lettura per bambini e dai colori pastello. Per far questo ho bisogno però di usare tinte assai più forti e decise, di evidenziare i chiaroscuri, di metterne in risalto sia le luci che le ombre e ciò perché la maternità porta con sé un insieme di vissuti ambivalenti che discendono dalla complessità che un’esperienza trasformativa simile possiede. Tale circostanza porta la donna ad essere spesso “vittima” (suo malgrado) di scontri titanici fra forze interne a sé opposte e all’apparenza del tutto inconciliabili e questo proprio perché quella donna al suo interno è anche e comunque madre. O sarà invece che il conflitto discende dal suo essere, adesso, prima di tutto madre e solo dopo, forse, (anche) donna? E qui arrivo al punto. Recalcati – fra i più noti psicoanalisti lacaniani del nostro Paese –  ci illustra egregiamente l’affascinante quanto tortuoso viaggio verso la maternità, puntando in special modo sulle sue declinazioni patologiche, figlie della sempre più frequente impossibilità di coniugazione dei due ruoli: quello di donna e quello di madre.

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Il Complesso di Edipo. All’alba della legge del padre

C’era una volta un re, Edipo, sovrano della città di Tebe; questi, inconsapevole del legame parentale con lei, aveva preso in sposa la moglie-madre Giocasta, vedova del primo marito Laio, ucciso proprio per mano dell’ignaro figlio Edipo; dall’ unione fra lui e la “scomoda” consorte, nasceranno ben quattro figli. In un simile scenario, apparentemente senz’ombra alcuna e che vuole i suoi principali protagonisti all’oscuro della più atroce verità, si cela, di contro, l’emblema dei rapporti incestuosi. Quella stessa verità, una volta svelatasi in tutta la sua crudezza, porterà Edipo, inorridito dagli atti compiuti suo malgrado – cui farà seguito l’impiccagione di Giocasta –  ad accecarsi. Un po’ come se, dopo quell’abominio involontariamente perpetrato, come estrema punizione, nulla avrebbe più potuto sottoporsi alla sua visione. Concluderà i suoi giorni esiliato, dimenticato da Tebe e dalla sua gente, allontanato dagli dei. Ed è proprio dalla celebre tragedia greca di Sofocle, l’Edipo re, che Freud trae diretto spunto per dar vita ad una delle nozioni più affascinanti, dibattute e controverse che la storia della psicoanalisi abbia mai conosciuto: il “Complesso di Edipo”, dalla cui modalità di superamento discenderà la futura scelta oggettuale dell’individuo. Esso racchiude in sè l’insieme dei sentimenti e dei desideri di natura sessuale espressi in tutta la loro ambivalenza e provati dal bambino verso i propri genitori: il complesso raggiunge la sua massima espressione fra i 3-5 anni, tempo che coincide con il cosiddetto “stadio fallico”, in cui secondo Freud tutti gli interessi del bambino sembrerebbero ora convogliati, appunto, verso il fallo (presente nel maschio/assente nella femmina.

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Disturbo Schizoide di Personalità

Guardando il mondo da un oblò: Quella lente che protegge

E’ stato come un lampo: mi trovavo nel bagno di casa mia, spazzolino in mano pronto all’uso, tutta intenta a riflettere sulla personalità schizoide. In una parola, stavo provando a  figurarmela nella sua essenza.  D’ un tratto, a fare capolino fra i miei pensieri si fa prepotente un’ immagine, che mi appare subito come molto nitida: quello “che vedo” è un oblò. Penso che forse è appartenente ad una nave di grandi dimensioni che in quel momento sta viaggiando indisturbata in mezzo al mare, tant’ è che oltre l’oblò ciò che si scorge è solo uno sconfinato tappeto d’acqua blu. Un istante dopo, quel che ho pensato di riflesso è stato che, evidentemente , mi ero già abbondantemente calata nel panorama schizoide, presa com’ero stata da quella semplice immagine mentale così insistente, e da cui tutta la mia fantasia si era sentita alimentata, prendendo così sempre più forma.

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Amore e odio. Bambino, oggetto e spinta alla riparazione

Pablo Picasso – La bambina con la colomba – 1901

Per il bambino, il primo oggetto indiscusso d’amore è rappresentato dalla madre, sulla quale si concentra la totalità dei sentimenti, con tutte le ambivalenze e il variopinto  ventaglio di sfumature che essi contemplano: ogni elemento è qui espresso su di lei alla massima potenza. Un fluido gioco di alternanze, fatto d’amore e d’odio, in quanto la madre può essere ora rispondente ai suoi bisogni, gratificandolo tempestivamente, e un momento dopo “assentarsi” nonostante le sue pressanti impellenze,  che in lei non  trovano quella soddisfazione tanto ricercata: è a quel punto che lo scenario psichico dell’infante cambia radicalmente, scandendo così pensieri aggressivi diretti proprio verso la madre.  Gli impulsi e i sentimenti sperimentati dal bambino  sono come affiancati da una attività proto-mentale, una sorta di pensiero immaginativo, in cui a  primeggiare è  l’ elaborazione fantastica:  nella mente del piccolo, il suo pensiero ha una traduzione diretta nel mondo esterno, cioè, “pensare” equivale letteralmente a “fare”; pertanto, i suoi pensieri o fantasie distruttive, hanno davvero  la capacità di distruggere l’oggetto, quello da lui  maggiormente investito e più amato.

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Il dismorfismo corporeo. Il peso di uno sguardo

“Se rendo più scure le mie ciglia e gli occhi più lucenti e le labbra più rosse o se chiedo, di specchio in specchio, se tutto va bene, non è per sfoggio di vanità: io cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato”. W. B. Yeats, 1875 

Ho scelto questi intensi versi di Yeats a introduzione del mio articolo perchè a mio avviso capaci  di cogliere perfettamente il senso di ciò che oggi proverò a raccontarvi. Di quella sensazione primordiale che ciascuno di noi ha sperimentato su di se una volta venuto alla luce. Prima che il mondo fosse creato, appunto. Inizialmente, il bambino possiede un volto e un corpo che si collocano in un certo senso lontano dall’altro. L’infante detiene il tacito convincimento che tutto ciò che possiede e che lo circonda sia semplicemente il frutto di una sua magica creazione. Sposando una visione evidentemente onnipotente delle cose, il volto del suo Io è qui incontaminato. Basta a se stesso. Tuttavia, sentirà ben presto di doversi affidare proprio all’alterità e a quegli occhi riflettenti, così da avere una chiara conferma della propria corporeità ( per un approfondimento si rimanda all’articolo “Funzione Riflessiva e sviluppo del sè-l’importanza di un banale riflesso” nella rivista di Dicembre 2014 ). Quante volte accade che il bambino, intento com’è nel maneggiare e scoprire per la prima volta il nuovo gioco appena ricevuto in dono dai nonni, esclami insistente ed entusiastico: “Mammaaa… guardamiii !”. 

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