Un bugiardo patologico come partner. Castelli di sabbia, Castelli di rabbia
Ogni menzogna ne contiene due: la bugia che raccontiamo agli altri e la bugia che raccontiamo a noi stessi per giustificarla.
Robert Brault
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Ogni menzogna ne contiene due: la bugia che raccontiamo agli altri e la bugia che raccontiamo a noi stessi per giustificarla.
Robert Brault
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“Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d’amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?”.
Così il genio di Milan Kundera affronta il tema principe della sua opera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, un perfetto ossimoro che ci pone davanti alla questione centrale per ogni essere umano: siamo esseri pesanti, come la carne di cui siamo fatti che ci spinge a terra, oppure siamo leggeri, aerei, come la natura della nostra anima?
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Di questi tempi, due anni fa, usciva un articolo che affrontava il tema delle relazioni patologiche e dei doppi legami (“Relazioni patologiche e doppi legami – Di relazioni ci si ammala, di relazioni si guarisce”). Sempre di questi tempi, l’anno passato, usciva un altro articolo sulla dipendenza nelle relazioni (“La dipendenza affettiva – Nè senza di te, né con te”).
A distanza di due anni, mantenendo la coerenza rispetto all’associazione tematica/periodo dell’anno (forse la primavera fa pensare alle relazioni?) siamo tutti un po’ cresciuti (anche il nostro “Sigaro di Freud”) e possiamo, come ogni anno, riprendere l’appuntamento sulle forme di relazione logoranti, ambivalenti, patologiche (?), affrontando la conseguente iper-attivazione del sistema di attaccamento.
Ma cosa è l’ambivalenza nelle relazioni?
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Vedere triste una persona che amiamo è un’esperienza dolorosa. Per via di quella storia dell’empatia e dei neuroni specchio, che ci fanno provare il dolore dell’altro come se fosse nostro, sulla nostra pelle.
Vorremmo poter coprire quel dolore, farlo scomparire.
Un celebre pezzo dei Coldplay diceva teneramente “I’ll fix you”, “Io ti aggiusterò”.
Ma purtroppo non possiamo togliere il dolore, non siamo in grado di “aggiustare” gli altri.
È a questo punto che i cinici desistono, sentendosi impotenti.
Un po’ come nel dilemma del porcospino di Schopenhauer, dove due porcospini si avvicinano, per scaldarsi l’un l’altro, ma avvicinandosi non possono che ferirsi, con i loro aculei. È qui che si può fuggire, per timore di ferire l’altro, o di ferirsi.
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Ce lo insegnano da bambine, in ogni favola, che un giorno arriverà il principe azzurro e ci salverà.
Ve lo insegnano da bambini che un giorno, voi belli e dannati, verrete salvati da una brava ragazza, la ben nota crocerossina.
Ce lo insegna Platone nel “Simposio”, quando ci narra degli ermafroditi, creature in origine complete che vengono divise a metà e sono costrette a passare la vita a cercare disperatamente di ricomporsi con la propria metà.
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Il rito del cammino di Santiago risale al IX secolo. La leggenda narra che un eremita, avvertito da un angelo, vide delle strane luci che assomigliavano ad un campo di stelle (Campus Stellae, Compostela appunto) sulla collina dove sorgevano i resti di un antico villaggio celtico. Il vescovo Teodomiro, interessato a quello strano fenomeno, ordinò di scavare nel punto indicato dalle stelle, dove vennero scoperte le reliquie ritenute appartenenti a San Giacomo (Santiago appunto), l’apostolo di Gesù. A partire da quel momento credenti da tutti il mondo intrapresero il loro pellegrinaggio per raggiungere le spoglie del santo e il cammino tra i secoli X e XIII visse il suo periodo d’oro. Con l’avvento del Protestantesimo che metteva in crisi i valori fondamentali della fede popolare, e le frequenti guerre europee che rendevano pericoloso l’arrivo in Galizia, lentamente calò il sipario sul cammino di Santiago, fin quando negli anni ’70 il parroco di una delle località sulla via composteliana partì con il suo furgone carico di barattoli di vernice per segnare con frecce gialle, oggi simbolo del cammino, la via ormai dimenticata. Dopo essere stato ricordato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982 ed essere stato considerato primo Itinerario Culturale Europeo nel 1987, nel 1993 il Cammino di Santiago è stato dichiarato Patrimonio Culturale dell’Umanità dall’Unesco e ad oggi 270.000 persone, tra cui moltissimi italiani, secondi solo agli spagnoli, ogni anno intraprendono l’antico pellegrinaggio per arrivare a Santiago.
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Da sempre teorie ambientaliste e innatiste si sono scontrate nel cercare di spiegare come si formi l’io del bambino, la sua struttura psichica, la sua personalità. Se da una parte abbiamo il concetto di tabula rasa dove l’esperienza e l’ambiente possono “scrivere” ciò che vogliono, dall’altra abbiamo la genetica che fa da padrona, imponendo fin dalla nascita strutture già preformate, come se il destino fosse già scritto. Come sempre la saggezza popolare ci viene in aiuto, permettendoci di svincolarci da questo acceso dibattito: “in medio stat virtus”, nessuna teoria è totalmente sbagliata, nessuna teoria ha interamente ragione. L’interazionismo ci suggerisce come il patrimonio genetico abbia una forte influenza sull’essere umano che diventerò, ma allo stesso modo un certo tipo di ambiente favorirà lo sviluppo di certe mie caratteristiche piuttosto che altre. A supporto di ciò nella ricerca scientifica in campo psicologico e non solo, numerosi e significativi sono gli studi sulle coppie di gemelli omozigoti adottivi che, condividendo quindi lo stesso patrimonio genetico, sviluppano caratteristiche di personalità, capacità, modalità differenti in relazione all’ambiente in cui sono vissuti.
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A: “Mi sono persa nel tuo quartiere. Mi guidi tu per telefono per arrivare in macchina fino al bar del nostro appuntamento?”
B: “Certo, dimmi dove sei”
A: “ (posizione) ”
B: “Ok, allora, (indicazioni), poi al bivio giri a sinistra… Uh, aspetta ti vedo, ecco, gira ora a sini… non là, a sinistra!”
A: “Caspita, ho perso l’uscita…”
B: “Dai rifai il giro, e, mi raccomando, quando sei al bivio di prima gira a sinistra”
A: “Ok, capito”
B: “Ma che fai? A sinistra ho detto!”
A: “Ma io ho girato a sinistra…”
B: “No, sinistra è dove ti sto aspettando io… Va beh, fa niente, fermati che arrivo a piedi”
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“A volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane”
Italo Calvino
Ho riflettuto molto sulla scelta del tema di quest’ultimo articolo prima delle vacanze estive, e forse a causa dell’abbuffata di vitamina D grazie al sole di questi giorni, mi è venuto da pensare “bando alla patologia, voglio parlare di normalità”. Che poi sul termine normalità si potrebbe disquisire probabilmente senza mai giungere ad un punto, ma in questo preciso contesto consideriamo normalità come assenza di patologie conclamate: sanità insomma. Per quanto i termini normalità e sanità vicini possano somigliare più ad un ossimoro. Diciamo insomma, senza dilungarci troppo, che questo sarà un articolo che con leggerezza cercherà di fare il punto sulla fase della vita più complicata e da sempre oggetto di studio, dibattito, interesse: l’adolescenza.
L’adolescenza è un periodo della vita che si colloca in continuum con l’infanzia (0-10 anni) e la pre-adolescenza (11-14 anni) e prima dell’età adulta, che è sempre stata fatta coincidere con i 18 anni, la maggiore età, l’età in cui si può prendere la patente, l’età in cui si termina (nella maggior parte dei casi) la scuola superiore, l’età in cui ci si affaccia sul mondo esterno.
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“Quando mi arrampico non penso a nient’altro. Nella mia mente c’è lo spazio subito intorno a me, visualizzo il prossimo appoggio per il piede, l’appiglio che la mano deve afferrare nei secondi successivi. Lassù non esiste ieri né tantomeno domani: devi rimanere ancorato all’istante presente. Altrimenti sei spacciato!”.
Questo pensiero di un anonimo scalatore è rappresentativo delle esperienze flow: esperienze “fluide”, di fusione con l’attività che si sta praticando, dove non c’è spazio che per ciò su cui ci sta concentrando.
Csikszentmihalyi nel 1975 ha scoperto e descritto le esperienze flow appunto negli scalatori. La loro percezione del tempo passato si contrae al massimo ai trenta secondi precedenti e la loro pianificazione non supera i cinque minuti. Non esiste assolutamente nulla oltre all’azione che stanno ora svolgendo: tutto è chiaro e limitato all’arrampicarsi. La vita con la sua complessità in questi momenti non esiste.
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