L’arte della relazione. La capacità di essere soli

Ce lo insegnano da bambine, in ogni favola, che un giorno arriverà il principe azzurro e ci salverà.

Ve lo insegnano da bambini che un giorno, voi belli e dannati, verrete salvati da una brava ragazza, la ben nota crocerossina.

Ce lo insegna Platone nel “Simposio”, quando ci narra degli ermafroditi, creature in origine complete che vengono divise a metà e sono costrette a passare la vita a cercare disperatamente di ricomporsi con la propria metà.

Ce lo insegna la società che, per citare un’opera di Margaret Mazzantini, “Nessuno si salva da solo”. Che da soli no, non ce la potremo fare. Che abbiamo bisogno dell’altro, per sentirci interi.

E per quanto emancipati, moderni, anticonformisti noi possiamo sentirci, questo clichè entra dentro ognuno di noi, in profondità, ci influenza, ci condiziona. Tanto da farci sentire inadeguati, inquieti, incompleti, soli quando siamo single. Dobbiamo muoverci, uscire, andare alla ricerca. Per poi rilassarci quando finalmente abbiamo stipulato un contratto sufficientemente soddisfacente con un candidato adeguato ad interpretare il ruolo di “altra metà”: ora entrambi possiamo fermarci, la caccia è finita!

Nel 2015 un film del regista Yorgos Lanthimos ha reso film la caricatura di cui sopra: “The Lobster” (attenzione spoiler!) racconta dell’esistenza di due comunità, quella delle coppie e quella dei solitari, entrambe con una forte identità di appartenenza e regolate da rigide norme. Le coppie sono le uniche entità socialmente accettate, hanno il dominio delle città. I single che desiderano essere in coppia, essere accettati dalla società, possono andare in una struttura di rieducazione alla coppia, dove partecipano a quotidiane battute di caccia contro i solitari e a full immertion di speed date con altri single, in base alla propria preferenza sessuale. Se entro un certo tempo non riescono a incontrare l’altra metà, sono costretti a trasformarsi in animale (il sottointeso è chiaramente che non sono degni di essere uomini). I solitari infine, reietti della società, sono costretti a vivere nascosti nei boschi, e si possono integrare nella comunità dei solitari, a patto che rifiutino la coppia nel modo più assoluto.

Questo film ci suggerisce come per l’uomo, entrare in relazione con l’altro sia un tema centrale e vitale. Allo stesso tempo, di come sia estremamente scomodo rientrare in categorie pre-costituite (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Stereotipi e pregiudizi – Una rosa se non si chiamasse rosa” della rivista di Giugno 2015). Infine, di come è difficile trovare la giusta distanza nelle relazioni, quella distanza che mi permette di esistere come individuo indipendente e separato dall’altro, creando allo stesso tempo uno spazio transizionale (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “L’oggetto transizionale – Linus non aveva tutti i torti” della rivista di Gennaio 2015) nel quale dare forma a ciò che di nuovo nasce dall’incontro da due identità separate.

Winnicott (si rimanda all’articolo “Il legame di attaccamento – L’importanza di legarsi” della rivista di Marzo 2015) ci suggerisce come alla base della relazione SANA con l’altro ci sia inevitabilmente la capacità di stare da soli, di godere della compagnia di noi stessi. Una madre (o altra figura di riferimento che si prende cura del bambino) “sicura”, che lascia il bambino esplorare il mondo circostante senza essere pressante, ansiosa o disinteressata, ma mantenendo una giusta distanza, permette al bambino di essere in silenzio con se stesso, di imparare ad ascoltare i segnali propri e del mondo esterno, di conoscersi come identità separata dalla madre. Se io imparo a conoscermi, imparo ad ascoltarmi, ad ascoltare i miei segnali regolatori interni (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Se tu sei con me io dormo serena – La funzione regolatrice genitoriale” della rivista di Settembre 2016), quindi a scegliere una strada più in linea con ciò che sono veramente, con il mio Vero sè (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il falso sè – Sul sentimento di autenticità” della rivista di Marzo 2015).

La psicoterapeuta Robin Norwood, nel suo libro “Donne che amano troppo” analizza l’incapacità di stare da soli nelle dinamiche della dipendenza affettiva femminile. Le donne che amano troppo sono incapaci di agire autonomamente e di godersi la solitudine perché non hanno sviluppato un rapporto adeguato con se stesse. In sostanza, non hanno maturato nell’arco dell’età evolutiva un sé capace di agire, esplorare e decidere autonomamente. Sono donne che dipendono dal partner, non riescono a staccarsi da una relazione malsana e saltano da un rapporto all’altro, per poi sentirsi insoddisfatte. Parlano spesso di se stesse in relazione ad un’altra persona e si sentono inefficaci quando non c’è nessuno a cui appoggiarsi.

Sono in sostanza quelle donne, ma ancor meglio quelle persone (seppur le differenze di genere siano innegabili, questo fenomeno interessa trasversalmente uomini e donne), che vivono in funzione dell’arrivo salvifico del principe azzurro su cavallo bianco o della crocerossina con cassettina di primo soccorso annessa o ancora della madonna attorniata da coro di angeli. Solo a quel punto la vita assume un significato. Stiamo parlando di dipendenza affettiva (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “La dipendenza – Vuoti di vita da colmare” nella rivista di Maggio 2015).

L’evidente rischio di questo clichè universale è quello di forgiare esseri umani alla ricerca di un senso delle cose al di fuori di sè, persone pronte a dedicare la propria esistenza, il proprio tempo, le proprie energie all’altro, in funzione dell’altro, mettendosi, se va bene, in secondo piano. Le conseguenze di questo sono un attaccamento morboso all’altro, che, laddove riesce a rendersi conto dell’ingente investimento che è stato fatto su di sè, fugge a gambe levate, lasciando dietro di sè una persona distrutta. L’altro in queste relazioni diventa l’oggetto di proiezioni (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa – Quei garanti della sopravvivenza” della rivista di Febbraio 2015), diventa la risposta ad aspettative che inevitabilmente disattenderà. L’altro diventa la perfetta distrazione per evitare di guardarsi dentro.

Ognuno si salva da solo, ebbene sì.

Se abbiamo il coraggio di sporgerci oltre quelle tenebre che rappresentiamo noi per noi stessi, oltre l’angoscia di vedere anche i limiti che umanamente inevitabilmente abbiamo, allora sì che troviamo l’altra parte dell’ermafrodita di cui ci narra Platone, che diventiamo completi. Ed è lì che incontriamo autenticamente l’altro.

Un po’ come il protagonista di “Into the wild” che (ri-spoiler!), dopo un isolamento autoimposto e necessario a depurarsi dalla “bestia folle” rappresentata dalla società (la capacità di essere soli di cui sopra), in fin di vita realizza “happyness is real only when shared”, e cioè che la felicità è vera solo se condivisa.

Dott.ssa Giulia Radi

Riceve su appuntamento a Perugia
(+39) 320 0185538

giulia.radi@hotmail.com

Per Approfondire:

Bowlby J., (1988) Una base sicura. Raffaello Cortina Editore

Norwood R., (1985) Donne che amano troppo. Feltrinelli

Winnicott D., (1965) Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore

Platone (IV secolo a.c.) Simposio (ne “I dialoghi”)

Mazzantini M. (2011) Nessuno si salva da solo. Mondadori Editore

film “The Lobster” (2015), regia di  Yorgos Lanthimos

film “Into the Wild” (2008), regia di Sean Penn

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