I Sette Vizi Capitali
L’ Avarizia

“Che tutto ciò che tocca il mio corpo si trasformi in oro splendente”

Il denaro è un elemento imprescindibile per ciascuno di noi, perché legato alla sopravvivenza e all’autodeterminazione. Ma cosa succede quando il legame con i beni materiali, e nello specifico con il denaro, finalizzato ad assicurare il nostro sostentamento, diventa il Legame?

La frase citata all’inizio di questo articolo é quella di re Mida, nelle metamorfosi di Ovidio, che di fronte alla possibilità di esaudire un desiderio, avrebbe scelto quello di trasformare in oro tutto quello che toccava, perché bramoso di opulenza. Il mito narra però, che poco dopo aver sperimentato questo potere divino, re Mida si sarebbe pentito della richiesta fatta perché impossibilitato a mangiare e di conseguenza a sopravvivere.

Tale mito mette in luce il paradosso insito nella richiesta del re Mida perché il denaro, in questo caso l’oro, invece di essere un mezzo per la sopravvivenza era diventato il fine, non permettendogli di fatto l’espletamento delle sue funzioni primarie, necessarie alla sua sopravvivenza.

In questo paradigma si individua la declinazione che ha portato l’avarizia ad essere considerata un vizio capitale.

 Alla base del commercio vi è lo scambio; non è un caso che le prime forme di economia si possano rintracciare nel baratto, cioè lo scambio di un bene per un altro. Con l’avvento del denaro è cambiato solo il mezzo, ma il fine è rimasto lo stesso, lo scambio, che può essere inteso come una forma di relazionalità perché senza di essa non procederebbe quella che oggi viene denominata economia.

 La relazionalità e la sopravvivenza sono pertanto i motori che permettono di attribuire un valore al denaro; lo stesso valore che lo rende oggi indispensabile alla società.

Ma cosa succede se ci sottrae alla relazionalità? Se il mezzo si sostituisce con il fine? Questo sembrerebbe essere il presupposto deragliante su cui si fonda dell’avarizia. L’avaro mosso dal desiderio sfrenato di accumulo e controllo degli averi, si sottrae dai rapporti umani. Si isola in una dimensione statica, fredda e calcolata, dove le variazioni date dall’incontro con l’altro non arrivano a perturbare un equilibrio tanto solido. L’avaro trova nell’accumulo e nel controllo una sicurezza di metallo inscalfibile; in compenso però questa diventa una fredda gabbia dove si rischia di rimanere soli, incuranti dell’altro e chiusi in una dimensione a misura di se stessi.

Strettamente legato al desiderio dell’accumulo di ricchezze è il valore attribuito ad esse. Il denaro nel tempo è divenuto sempre di più un mezzo di misura del valore delle cose, rendendo quindi maggiormente saldo il legame tra il valore delle cose possedute e quello di sè, allontanando sempre di più il grado di uguaglianza tra le persone. In questo senso alla radice del pensiero dell’avaro potrebbe esserci anche il bisogno di misurare il proprio valore sulla base degli averi posseduti. Quanto più ho, tanto più valgo. In tale direzione il possesso diviene un espediente che sostiene il senso di sicurezza di tale individuo.

Alle origini dell’avidità Freud aveva rintracciato una stretta correlazione con il carattere anale, da lui concepito all’interno della teoria dello sviluppo psicosessuale, vincolato all’ordine e al controllo, che avrebbe a che fare con il “trattenere dentro”. Questa dinamica, secondo Freud, sarebbe implicata nelle relazioni primarie all’interno delle quali il bambino si sperimenta; nello specifico imparando a regolare il proprio sfintere il bambino scopre di potersi controllare autonomamente, distinguendosi quindi dalla figura primaria dalla quale dipendeva fino a quel momento.

In merito a ciò Freud ipotizzava quindi che questo divenisse uno strumento di potere nella dinamica diadica; così di fronte ad una madre controllante, attenta alle regole e anaffettiva, il bambino poteva utilizzare tale controllo a suo vantaggio, nel tentativo di gestire e condizionare le emozioni altrui, incorrendo tuttavia nel rischio di eccedere. In questa dinamica era anche contemplata la tendenza ad un pensiero ossessivo e ruminante, caratteristico dell’avaro.

Questo spunto dà, quindi, modo di riflettere sul rapporto che la persona avida ha con gli affetti, che rischiano di essere repressi, controllati o trattenuti perché considerati minacciosi.

 In conclusione si può immaginare l’avaro come arroccato in una fortezza ricca di beni materiali e povera di contatti umani, dove il piacere sociale e vitale è sacrificato in virtù del piacere stesso di accumulare, dove la misura di se stesso è data dai possessi e dove non c’è spazio per tutto ciò che è fluido, vivo e relazionalmente connotato.

Per approfondire: 

Andreoli V. (2011) Il denaro in testa, Rizzoli, Milano

Freud S. (1908) Carattere ed erotismo anale, Bollati Boringhieri, 2000.

Dott.ssa Valentina Merola

Psicologa a Roma

e-mail: vale.merola@hotmail.it

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