I Sette Vizi Capitali
La Gola

La gola, o l’ingordigia nella sua definizione originaria, rappresenta il desiderio eccessivo di mangiare e di bere. È considerato uno dei vizi capitali perché si oppone alla virtù della modestia e della povertà: le persone povere non possono permettersi di mangiare molto, perciò, soprattutto nel Medioevo, la Gola veniva considerata una forma di ingiustizia sociale. 

Quando parliamo di alimentazione, dal punto di vista simbolico e psicologico, ci rifacciamo sempre al primo contatto con il cibo che abbiamo nella nostra vita: quello con il latte (materno o formula che sia) e in generale con la mamma (o altra/o caregiver). Il cibo quindi sin da subito non significa solo nutrimento, non rappresenta solo il soddisfacimento di un bisogno primario, ma sempre rimanda alla relazionalità.

Il primo esperimento a suggerirci che il nutrimento non è l’unico bisogno primario, ma che l’affettività e le coccole sono altrettanto necessarie, è stato Harlow col suo esperimento sui macachi. Offrendo ad un cucciolo di macaco due mamme, una mamma-robot che erogava cibo e una mamma-pelouche senza cibo, i cuccioli passavano alternativamente dall’una per nutrirsi, all’altra per ricevere coccole e calore che richiamava quello animale. Da lì gli studi sull’attaccamento hanno messo sullo stesso piano i bisogni primari di alimentarsi e di essere amati, spesso associati tra loro. Ci nutriamo infatti di relazioni e “di relazioni ci si ammala” e “di relazioni si guarisce” come suggerisce Patrizia Adami Rook. 

Insomma, quando pensiamo alla gola, non dobbiamo pensare solo ai banchetti imbanditi delle nobili famiglie rinascimentali con i loro capelli cotonati, gli abiti ingombranti e la servitù pronta ad assaggiare il cibo prima di loro per testare se sia avvelenato (sapete che il mobile che oggi chiamiamo “credenza” si chiama così per questo?) che rappresentano l’ostentazione del benessere e della ricchezza, ma dobbiamo pensare al reale significato che il cibo ha per noi in ottica relazionale. 

In un mondo occidentale come il nostro in cui (per fortuna) non siamo costretti a mangiare per sopravvivere, mangiamo per tanti altri motivi che esulano dalla sopravvivenza: per abitudine, per convivialità, per gusto, per celebrazione. Ed è qui che subentrano i significati secondari del mangiare che possono portarci alla distorsione del suo significato originario: nutrirsi per sopravvivere. 

Una precisazione: questo articolo non vuole togliere nulla al godimento di condividere un buon pasto con una buona compagnia, un piacere del tutto sano e che la sottoscritta per prima porta avanti con gioia.

Tuttavia, per tornare alle distorsioni, esse sono definite “perversioni” (dal latino “per-vertere”, ovvero “cambiare la direzione”, cioè lo scopo, di una funzione) ed includono tutte le distorsioni delle motivazioni originarie che spingono ad un determinato comportamento. Nell’ambito del mangiare per esempio, il cibo può diventare un sostituto perfetto per coprire alcune mancanze. Possiamo mangiare perché siamo arrabbiati/e, perché la rabbia ci scava dentro un solco che potremmo confondere con la fame. Potremmo mangiare perché ci manca qualcuno/a, che ci ha lasciato un buco dentro che assomiglia al morso della fame. Potremmo mangiare in generale per evitare di sentire alcune specifiche emozioni (scomode) e in questi casi il nostro mangiare potrebbe essere definito “emotional eating”, letteralmente mangiare emotivo. In questi casi, spesso potremmo passare per ingordi/e, quando evidentemente stiamo solo cercando di gestire con gli strumenti che possediamo alcune scomode emozioni. 

Mi viene in mente il film uscito proprio questo anno “The Whale”, magistralmente interpretato Charlie Brendan Fraser, che ci racconta come i traumi inelaborati ci possano portare dentro un vortice di autodistruzione da cui è sempre più difficile uscire. E il cibo, inteso come sostituto o copertura di altro, funziona benissimo! 

Parliamoci chiaro: la perversione può funzionare benissimo anche nel suo senso contrario, ovvero nel rifiuto di nutrirsi (nei casi estremi arriviamo a parlare di anoressia), ma siamo qui a parlare di gola ed ingordigia e quindi andiamo a vedere l’aspetto dell’eccesso (iper) anziché della carenza (ipo). 

A questo punto dell’articolo dovrebbe essere chiaro come la gola possa essere più di un semplice “vizio”, o “peccato”, secondo la dottrina cattolica. 

Ma è importante menzionare anche le distorsioni non necessariamente psicopatologiche a cui la nostra cultura potrebbe esporci come il cosiddetto fenomeno del food porn. L’esposizione visiva data dai Social Networks di corpi, viaggi, gattini e vita privata non poteva non toccare una grande passione delle persone, in particolar modo delle persone italiane: il cibo. L’espressione, poco elegante, di “food porn” indica la rappresentazione fotografica digitale di una pietanza, un ingrediente, o l’atto stesso di portare quel determinato cibo alla bocca, spesso con espressioni pittoresche. 

Ciò che risulta interessante è che a volte il cibo viene fotografato ma non consumato, aprendo ad uno scenario ancora diverso dove la perversione diventa non più l’iper-alimentazione, non più la privazione ma l’uso del cibo solamente a fini estetici o di public relation, allontanandoci quindi ancora di più dal suo significato originario. 

Ma, ancora una volta, la chiave di lettura può essere la stessa: per chi lo facciamo se non per i/le nostri/e follower (e quindi per scopi relazionali)? 

Siamo sempre lì: di relazioni ci si ammala, di relazioni si guarisce. 

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