I Sette Vizi Capitali
L’Invidia

Il vizio capitale che tratteremo oggi è, probabilmente, il peccato più temuto nella storia dell’essere umano e quello più insito e negato dentro ognuno di noi. Sto parlando dell’invidia. 

Nel folklore culturale di molte popolazioni del mondo, dal passato sino ad oggi, si associa alla persona invidiosa il potere di inviare la sfortuna sul malcapitato invidiato, provocandogli il famoso “malocchio” ossia “sguardo malevolo”. L’invidia, nella mente collettiva ha il potere addirittura di deviare la sorte di un essere umano, e ovviamente, si necessita di svariati rituali tramandati di generazione per togliere il malocchio o l’invidia subita. 

Ma tutto questo, cosa ci fa pensare? 

Se l’invidia è tanto temuta è proprio perché alberga in ognuno di noi ma è anche fortemente negata e rimossa. Renè Girard affermò che l’invidia è il motore propulsore del desiderio dell’essere umano, che ci spinge verso qualcosa che non abbiamo, ma che ha l’altro.  

Renè Girard aggiunge che con il crollo della struttura medievale, dove l’essere umano si definiva mediante il divino, un Dio, e con il passaggio verso una società egualitaria, l’invidia diviene ancora più prorompente e il desiderio umano assume sempre di più una funzione mimetica, ossia non desidero più l’oggetto dell’altro, ma desidero essere l’altro, appropriarmi di parti identitarie dell’altro che desidero per definire me stesso.

Osservando i fenomeni di Instagram e social connessi, non possiamo dargli torno. 

Tutto ciò possiamo ricollegarlo a ciò che ha teorizzato la psicoanalista Melanine Klein nel suo libro “Invidia e Gratitudine”, individuando nel neonato dei sentimenti di profondo amore e gratitudine verso il “seno materno” ossia verso quell’entità che si prende cura di lui e soddisfa tutti i suoi bisogni, ma anche un profondo senso di invidia verso quel contenitore che conserva tutto ciò di cui ha bisogno ma che lo frustra nell’attesa e non soddisfa immediatamente i suoi bisogni come accadeva nella vita intrauterina, generando un profondo senso di odio. Nella mente del neonato, ancora in fase di sviluppo, le pulsioni di amore (l’entità divina appaga tutti i miei sensi) e le pulsioni distruttive di odio (l’entità maligna mi provoca il male dentro il mio corpo, ossia i suoi bisogni non ancora riconosciuti come propri) vengono scissi, per tutelare il legame d’amore con il divino materno e fortificare un senso di sé amato. Con l’evolversi delle capacità cognitive del neonato, e se le pulsioni d’amore saranno superiori alle pulsioni invidiose di odio, il bambino sarà in grado di integrare le due divinità in una sola, provando un profondo senso di colpa per aver odiato l’oggetto tanto amato (fase depressiva). Questo senso di colpa sarà fondamentale per costituire un senso di sé interno, con il riconoscimento dei vissuti e bisogni percepiti come interni e non provocati dall’esterno (non è mia madre che mi fa sentire la fame, ma sono io ad essere affamato). 

L’invidia nasce, dunque, subito dopo l’amore, come espressione di un desiderio che diviene profondo senso di mancanza e deprivazione. L’invidia può diventare odio, verso il prossimo che con la sua presenza mette in luce le mie mancanze, e questo fenomeno lo possiamo individuare nel bullismo o negli haters sul web, in una evacuazione costante di una invidia verso il prossimo che vive e si mostra. 

Il sentimento dell’invida è molto comune nelle persone con vissuti persecutori o paranoici, in quanto viene proiettato sull’altro idealizzato e pieno di risorse uno sguardo di odio e giudizio verso se stesso, pieno di mancanze e deprivazioni. 

Ma se dovessimo trattare l’invidia come tutti gli altri sentimenti e vissuti emotivi, che cosa ci suggerisce o cosa vuole comunicarci? 

Il vissuto dell’invidia ci conduce verso quella parte di noi deprivata o ferita che ricerca nell’altro qualcosa che sente di non avere. Un modo per sintonizzarsi con questa ferita senza agirla mediante pensieri invidiosi ci viene suggerita dalla virtù contrapposta all’invidia, ossia la carità. Oggi la chiameremmo Self-compassion, ossia la possibilità di accogliere ed empatizzare con quella parte interna ferita e con approccio caritatevole prendersene cura e dare a quel bambino interiore ciò che sente di non aver ricevuto dall’altro: amore, ascolto, validazione. 

Prima di concludere questo articolo, vorrei trattare l’invidia espressione di disparità o ingiustizie sociali, che si incanalano in un profondo senso di rabbia e ribellione verso l’ingiustizia subita. Vorrei portare ad esempio ciò che Freud teorizzò come invidia del pene, a carico delle donne. Seconde Freud le bambine, una volta scoperto il proprio genere sessuale, provano un’invidia verso il pene del bambino, che “possiede” qualcosa in più di lei, portandola segretamente a covare questa invidia verso il maschile e alimentando complessi di inferiorità e angoscia di castrazione, sfociando nell’isteria. L’invidia, che invece il femminile può provare verso il maschile, non è anatomica o atavica, ma è un’invidia innescata e provocata da dinamiche disfunzionali famigliari e culturali. Rappresenta la deprivazione di diritti e dignità umana, fino ad arrivare ad un’educazione distorta e disparitaria dei figli, dove avere un maschio era motivo di orgoglio e una femmina una grana per capire come liberarsene.

L’invidia, in questo caso, non è uno sguardo malevolo verso il maschile, ma è un profondo senso di svalutazione e negazione affettiva e di potere interiore e sociale che più di una figlia femmina ha provato nella propria vita, e la rabbia  e l’odio verso questo profondo senso di ingiustizia può avere solo due vie: o verso se stesse, svalutandosi e divenendo schiave del focolare, non sentendosi meritevoli ne riconoscendo il proprio valore, o verso la società pretendendo di essere riconosciute al pari dell’uomo, libere di autodeterminarsi ed essere riconosciute e desiderate fin dalla nascita. 

Dott. Dario Maggipinto

Riceve su appuntamento a Chieti
(+39) 334 9428501

dario.maggipinto@gmail.com

Per approfondire: 

Klein M. (1957). Invidia e gratitudine. Firenze, Martinelli, 1969.

René G. (1998). Shakespeare. Il teatro dell’invidia. Adelphi

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