Binario 95
Un esempio di sostenibilità sociale

“Ecco, ritengo che convenga, ogni tanto, trovare quel proprio balconcino e starci anche solo pochi attimi per ricercare proprio quel senso di libertà.”

Negli ultimi anni, in ambito sociale, sempre di più si sente parlare di una realtà di eccellenza sul territorio romano che, leggendo sul loro sito internet si occupa “dell’assistenza socio-sanitaria, dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, dell’accoglienza, dell’orientamento ed inclusione sociale delle persone senza dimora, dell’immigrazione, della comunicazione, dell’informatica orientata a servizi sociali o culturali e dell’editoria”. Ci riferiamo a Binario 95. Abbiamo avuto la fortuna di intervistare uno dei responsabili, Fabrizio Schedid.

I: Bizio, potresti raccontarci come nasce Binario 95 e di cosa si occupa?

Binario 95 www.binario95.it formalmente è un centro Polivalente per persone senza dimora, gestito dalla cooperativa sociale di cui sono vice-presidente, Europe consulting Onlus, ad attualmente finanziato grazie a un bando del Dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma e da altri finanziatori privati (Fondazioni, altri progetti, privati, fund-raising). 

E’ parte del Polo Sociale Roma Termini, un hub di servizi per le persone senza dimora che comprende appunto il Centro di accoglienza diurna e notturna Binario 95, ma anche l’Help Center, uno sportello sociale di primo ascolto e orientamento, il Magazzino Sociale Cittadino (ovvero un servizio di elargizione di beni di prima necessità alle persone prive di dimora), l’Help Center Mobile, un’unità di strada che intercetta le persone in difficoltà alla Stazione Termini, nel rione Esquilino e nella Quartiere Termini-Castro Pretorio.

Opera in locali di concessi in comodato d’uso gratuito da Ferrovie dello Stato Italiane, grazie al progetto, sempre di Ferrovie, ONDS Osservatorio Nazionale sulla solidarietà nelle stazioni italiane www.onds.it che coordina ormai 19 presidi sociali nelle Stazioni di tutta Italia.

Binario 95 nasce come centro di accoglienza diurno nel 2006, grazie ad una “scommessa” in autofinanziamento della Cooperativa Europe Consulting, che riesce nel 2007 a vincere un bando di Fondazione Vodafone che gli garantirà il finanziamento di due anni di start-up. Nel 2009 grazie al Progetto Nazionale Un Cuore in Stazione, l’Associazione Enel Cuore e Ferrovie, ristrutturano 12 presidii sociali in altrettante stazioni ferroviarie e permettono a Binario 95 di ampliare la propria struttura.

Nel 2010 l’accoglienza diurna di Binario 95 viene arricchita da 10 posti letto per l’accoglienza notturna.

Oggi Binario 95 accoglie ogni giorno circa 20 persone nel servizio cosidetto Diurno H 9 di riabilitazione alla vita sociale, circa 35 persone nel servizio diurno cosiddetto H 4, doccia, lavanderia e spazio di sosta, e appunto 10 persone in accoglienza notturna. A questo si uniscono progetti più strettamente riabilitativi o di tutela socio-sanitaria come Dottor Binario, i laboratori terapeutico-riabilitativi di Teatro, Narrazione, Lettura, C’Artigianato, Scuola di italiano, Cucina, e il progetto Gruppi Aperti, ovvero uno spazio di confronto e discussione aperto alle persone senza dimora e gestito da due psicoterapeute, nato dalla collaborazione con SMES Italia (Salute Mentale ed Esclusione Sociale) un’associazione che ha individuato nella terapia di gruppo uno strumento particolarmente efficace per la riabilitazione delle persone senza dimora.

I: Siete riusciti ad implementare veramente molti servizi, siete nati praticamente come una scommessa che ad oggi possiamo dire ben riuscita. Le tue attività in quanto vicepresidente in che cosa consistono? E come ti vivi questa responsabilità giornaliera? Immagino che gli impegni quotidiani in termini di orari e annesso stress non mancano, hai svolto una formazione specifica che consiglieresti a chi volesse intraprendere questo tipo di lavoro nel sociale?

Come vicepresidente, faccio ovviamente parte del consiglio di amministrazione della Cooperativa, che, come è noto, è elettivo e votato da tutti i soci e si occupa della gestione economica e amministrativa della cooperativa, il cosiddetto “management”, che comprende tuttavia anche una visione ad ampio raggio sul futuro e sulle prospettive. Il consiglio di amministrazione ha come primo mandato quello di presentare annualmente il bilancio all’assemblea dei soci perché sia approvato, e come secondo compito quello di fare in modo che le attività che la cooperativa sviluppa siano coerenti con lo statuto, con la mission e con i valori di riferimento della cooperativa stessa. Evidentemente un compito così ampio non può essere esercitato da “soli”, ragione per la quale siamo dotati di un collegio di sindaci che vigilano sulla correttezza del nostro operato.

Come vicepresidente ho essenzialmente compiti di rappresentanza esterna (stakeholder, istituzioni, mezzi di comunicazione, ma anche comunità cittadina) e interna: rapporti con i soci e i lavoratori. Poi, come dice la parola stessa, sono chiamato a fare le veci del presidente in caso di sua assenza o impossibilità. In generale, credo che la responsabilità che esercito (anche come coordinatore di servizi e responsabile dell’area servizi sociali della cooperativa) sia assimilabile a quella di qualsiasi altro ruolo manageriali in un’azienda o in un’istituzione pubblica. Diciamo che in una cooperativa sociale vi è una responsabilità in più, che è quella di rispondere non solo a chi mi ha affidato tale responsabilità (semplificando, “chi mi sta sopra”, il mio “capo”), ma alla fonte depositaria di ogni autorità in una cooperativa, ovvero l’Assemblea dei soci, dunque di tutti i soci, che sono co-proprietari della cooperativa al pari di un presidente, di un vicepresidente, o di un consigliere. Se questo, da un lato, è un surplus di responsabilità, in quanto richiede che operi non come singolo professionista, secondo la mia personale inclinazione o sensibilità, ma tenendo presente che sto rappresentando le diverse inclinazioni e sensibilità dei soci, dall’altro lato è un vantaggio, in quanto la mia responsabilità è sempre condivisa, con il presidente, con il consiglio di amministrazione, con l’assemblea dei soci, e dunque, evidentemente, anche il suo peso.

Rispetto alla formazione necessaria per lavorare in questo specifico settore, certamente sono necessarie competenze in ambito educativo-pedagogico, psicologico, antropologico, ma anche in ambito organizzativo e gestionale (economia, filosofia – è il mio caso –, informatica, progettazione), nonché nell’ambito della ricerca sociale: statistica, sociologia. Credo però che, in particolare in questo periodo storico, e a maggior ragione nel contesto italiano e romano ancor di più, il lavoro sociale abbia soprattutto bisogno di innovazione, in quanto per qualche ragione, a differenza di altri settori, non ha quasi mai saputo dotarsi di strumenti tecnologici per efficientare il proprio lavoro. Dunque, credo che vi siano due aree di competenza che possono costituire la chiave di volta per far fare al sociale quel salto di qualità che migliorerebbe notevolmente il suo impatto nelle nostre società: l’innovazione tecnologica e la tematica ambientale sia in termini ecologici, sia in termini di impatto sociale e ambientale.

Per lavorare nel sociale oggi non è sufficiente una semplice competenza specialistica, pur utile e importante, ma occorre una preparazione globale in quanto lavorare sull’emarginazione sociale significa lavorare al contempo sulla persona, sul gruppo, ma anche sulla società che ha escluso e marginalizzato queste persone e questi gruppi. E, trattandosi di persone, non lavorare solo su una dimensione (psicologica, o economica, o occupazionale) ma su tutte le sue dimensioni che si intersecano e si influenzano reciprocamente. Per banalizzare, non è pensabile occuparsi del trauma psicologico e relazionale di una persona che ha perso famiglia, casa e lavoro, senza occuparsi anche del suo bisogno di una doccia, o di un paio di scarpe, o di un vestito che la faccia sentire “normale”, per non parlare del suo bisogno di relazione, e, scrivo una cosa che molti potranno considerare una bestemmia in ambito lavorativo, di “affetto”. Chi lavora nel sociale, con le persone, deve essere capace di lavorare nei limiti, nelle zone di confine tra una disciplina e un’altra, tra un ambito e un altro, tra un linguaggio e un altro, tra la dimensione individuale e quella collettiva, perché, a differenza delle nostre categorie scientifiche, la persona non è mai fatta a compartimenti stagni. Perché non si può curare la persona, senza prendersi cura un po’ anche della società, e viceversa.

Rispetto invece al riferimento allo stress, agli orari e alla fatica, credo che, oltre ad essere caratteristica di ogni lavoro. Non credo esistano lavori più o meno stressanti, credo che lo stress abbia molto a che fare con la realizzazione di sé e della propria idea di esistenza. Se faccio un lavoro che non realizza le mie aspettative, per qualcuno per il quale non ho interesse, con un gruppo di lavoro col quale non ho sintonia e condivisione di intenti, per scopi che non si intersecano con le mie aspirazioni, anche il minimo stress mi risulterà intollerabile, perché la domanda da porsi non è se faccio un lavoro più o meno stressante di un altro, ma se faccio il lavoro giusto per me. In questo caso, credo che anche un livello di stress molto alto lo si sostiene facilmente, in quanto è compensato, appunto, dalla convinzione di realizzare al meglio le proprie capacità e le proprie aspirazioni. In sintesi, se ognuno, qualunque sia la professione che svolge e il livello di stress che la caratterizza, ogni mattina si chiedesse se ri-sceglierebbe quel lavoro che sta per andare a svolgere, e si rispondesse di sì, allora la domanda sulla fatica e lo stress ad esso connessi non sarebbe necessaria, perché un’attività che contribuisce a realizzarmi, ancor di più se in condivisione con altri che si realizzano con me, compensa infinitamente di più lo stress e la fatica che essa comporta.

I: I punti che hai sollevato sono davvero molto interessanti e sfrutto l’occasione per ringraziarti di questa intervista. Mi ha colpito particolarmente l’aspetto di innovazione a cui facevi riferimento e hai citato l’innovazione tecnologica e la tematica ambientale, come pensi che questi punti possano aiutare il settore sociale?

Faccio degli esempi concreti che abbiamo sperimentato nella nostra cooperativa e messo al servizio della città, ma soprattutto delle persone che assistiamo: oggi Roma Capitale utilizza una banca dati che raccoglie le schede individuali, con lo storico di tutti gli interventi riguardanti oltre 300 servizi per le persone senza dimora della capitale. Nel concreto: se una persona in difficoltà si presenta a Binario 95 per chiedere un aiuto, noi, aprendo la sua scheda, oltre ai dati anagrafici, possiamo sapere quali servizi ha incontrato, a quali invece non si è rivolto e potrebbe invece rivolgersi, se abbia una mensa dove va a mangiare, o un servizio doccia, o se invece non ci vada, magari semplicemente perché non pensa che esistano tali servizi. Oppure se un servizio lo sta aspettando per erogargli un supporto o un aiuto. Possiamo contattare i servizi che lo hanno in carico e assieme a loro, e coinvolgendo lui, costruire un progetto in cui ogni servizio che già lo sta assistendo, metta il suo pezzo in modo coerente e organizzato evitando contraddizioni, dispersioni o incoerenze, oppure evitare duplicazioni di interventi, o repliche di interventi che magari già sono stati provati invano con lui esponendolo a un nuovo fallimento. Più banalmente, possiamo evitare che debba raccontare la sua storia magari per la terza volta in un giorno, o per la ventesima in un mese. Questo fa lavorare meglio e in modo più coeso i servizi, che significa offrire un supporto migliore a lui che ne ha bisogno e fargli risparmiare tempo e guadagnare in efficacia dell’orientamento che gli viene dato.

Un altro esempio: stiamo sperimentando un banale sistema di prenotazione di alcuni nostri servizi (docce, lavatrici, distribuzione abiti, ma anche tutela legale, counseling psicologico e quant’altro). Questo sistema potrebbe essere esteso a tutti  i servizi che partecipano a questa banca dati ed eventualmente collegato con una semplice geolocalizzazione dei servizi: se così fosse, le persone, che ad esempio, hanno bisogno di una doccia, non dovrebbero accalcarsi presso un servizio che magari non può garantire a tutti la doccia ed è costretto a rimandare indietro qualcuno dopo una lunga attesa, perché non c’è tempo ed è ora di chiusura, ma potrebbe ognuno prenotarsi la doccia dove la trova libera, nel posto magari più vicino, senza andare per tentativi. E quando trova quel servizio pieno, potrebbe prenotarsi in un altro che invece magari ha posto. È il concetto banale che noi applichiamo quando prenotiamo un ristorante, o un viaggio o un albergo: perché non dovremmo applicarlo per servizi anche più importanti, che riguardano la sopravvivenza quotidiana di persone in difficoltà?

Ma ne faccio altri. Ogni sera i volontari e operatori, e sono davvero centinaia, che incontrano le persone senza dimora, distribuiscono giustamente coperte o sacchi a pelo a chi non ne ha. Sono le coperte e i sacchi a pelo che molti di noi cittadini donano generosamente e davvero possono salvare una vita o cambiare la notte di un essere umano, soprattutto in inverno. La mattina però, la persona che l’ha usata, non può portarsela dietro in giro per la città ed è costretta a lasciarla sulla strada, al massimo cercando di nasconderla. Spesso, se lasciata in giro, la coperta viene buttata. In altri casi, perché tutto il mondo è paese, esiste anche qualcuno che invece la coperta la vende ad un altro senza dimora, per guadagnare qualche spicciolo. Per questo, di coperte, ci sarà sempre un bisogno costante ed infinito, mentre al contempo, magari, chi si occupa di pulizia delle strade deve sobbarcarsi il lavoro di prenderle e buttarle. È uno spreco e soprattutto un danno per quel povero senza dimora, invece, che ne avrà bisogno quando i volontari avranno terminato quelle che gli sono state donate. Ora, se si distribuisse ad ogni persona in difficoltà un tesserino magnetico che lo identifichi con un codice, e se si predisponessero delle lavanderie sociali in varie zone del territorio, spiegando alla persona che riceve una coperta che potrà richiederne una pulita la sera successiva, solo se con il suo tesserino avrà restituito quella usata in uno di questi punti, avremo risolto due problemi in uno. Quello di far buttare le coperte lasciate in strada o nei parchi o nei sottopassi, e quello di garantire una coperta ogni sera ad ogni persona che avrà semplicemente “restituito il reso” della sera prima. Si sprecherebbero meno coperte, si spenderebbero meno soldi per toglierle dalle strade e buttarle, si disincentiverebbero coloro che la prendono e magari la vendono perché il loro codice direbbe subito che hanno preso una coperta la sera prima e non l’hanno restituita.

O ancora: se tutte le associazioni e i servizi che erogano cibo, o vestiti, o beni, condividessero in una unica piattaforma i beni a loro disposizione, l’associazione che ha bisogno, ad esempio, di 20 panini in più di quelli che ha, potrebbe chiederli a quella che ne ha in più dopo aver distribuito. Lo stesso con gli indumenti. Oppure, se un’associazione intercetta una persona che ha bisogno di un paio di stampelle perché invalido su questa piattaforma, verificasse che un’altra associazione ha 6 stampelle in magazzino, potrebbe prenderle e risolvere il problema al poveretto che ne ha bisogno nell’arco di poche ore. E viceversa, l’associazione che ha le stampelle, ma magari non ha il paio di occhiali da vista che gli ha chiesto un suo assistito, potrebbe fare altrettanto. Si potrebbe creare una sorta di magazzino diffuso.  Dico di più, il tesserino con codice identificativo della persona senza dimora che si trova in strada, potrebbe permettergli, se ha difficoltà a spostarsi, di inviare a questa piattaforma la propria geolocalizzazione e li bene di cui a bisogno. A quel punto l’associazione a lui più vicina, dopo aver verificato attraverso il codice, che non si tratta di una persona che “se ne approfitta” e che magari già ha ricevuto nella stessa giornata due o tre volte quel bene, potrebbe semplicemente recarsi sul posto e portargli ciò di cui ha bisogno. Questo consentirebbe a tutte le associazioni, ad esempio, di sapere, prima ancora di “uscire” chi sono, dove sono e di cosa hanno bisogno le persone senza dimora della propria zona di competenza. Per non parlare di come si potrebbe sfruttare questa piattaforma per “scambiarsi” i volontari, se, ad esempio, una sera una di queste associazioni ha numerose defezioni, mentre un’altra ha un sovrappiù di volontari.

Tutti strumenti che nel mondo profit sono  abbastanza banali e già in uso, ma che se applicati al mondo no profit, ridurrebbe gli sprechi, efficienterebbe i servizi, farebbe risparmiare i costi (economici, materiali, ma anche di sforzi umani, se lo si applicasse anche alla condivisione dei volontari) e conseguentemente aumenterebbe la quantità di beni disponibili e migliorerebbe la qualità dei servizi per le persone in difficoltà, oltre a facilitare l’apporto che i cittadini, come donatori, potrebbero dare ad una “macchina della solidarietà” che funzionerebbe meglio e più velocemente.

Sono solo esempi, ma volendo potremmo farne infiniti semplicemente applicando al mondo di chi non ha soldi né risorse né casa, quegli strumenti che senza nemmeno accorgercene usiamo noi che abbiamo soldi risorse e casa. Se ci pensi, sarebbe un uso democratico della tecnologia che, anziché aumentare le diseguaglianze, come spesso ora accade, se applicata al mondo della solidarietà, diventerebbe uno strumento di uguaglianza e giustizia sociale, oltre che di risparmio delle risorse di tutti e di tutela, a conti fatti, dei Beni Comuni, ed uso appositamente le lettere maiuscole, in quanto si realizzerebbe veramente una Comunità con la C maiuscola.

Vorrei per concludere raccontare un aneddoto che Fabrizio mi ha raccontato in amicizia al termine dell’intervista e che per gentilezza ha dato il permesso di pubblicare. Ho trovato che questo punto di vista possa essere utile per chiunque lavori nel sociale. Ho domandato a Fabrizio che cosa gli piace del suo lavoro. Egli mi ha risposto in sincerità che sicuramente aiutare delle persone in difficoltà lo gratifica, vedere che alcuni prendono un proprio appartamento e che cercano di migliorare la loro situazione di vita gli fa piacere. Eppure, c’è qualcosa di più. Mi ha raccontato infatti che a volte si sveglia la mattina all’alba ed esce nel proprio terrazzo di casa – un paio di metri quadri – e osserva Roma dall’alto. In quei momenti, sentendo quel senso di libertà, prova una profonda gratitudine. Ecco, ritengo che convenga, ogni tanto, trovare quel proprio balconcino e starci anche solo pochi attimi per ricercare proprio quel senso di libertà.

L’immagine è stata presa da Art Ranked Discovery Engine.

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