Stereotipi e Pregiudizi. Una Rosa se non si chiamasse Rosa

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Il bancone della frutta e della verdura del mercato è un tripudio di colori in primavera: il rosso delle ciliegie insaporite dal sole, gli invitanti semi gialli dell’esotico frutto della passione, i peperoni verdi rossi e gialli, l’intenso rosa dell’anguria che sa di dissetante. In questo panorama di stimoli colorati e profumati una mamma ed il suo bambino passeggiano e fanno acquisti. Il bambino ha gli occhi sgranati, i canali sensoriali spalancati, merito di tutti quei colori, quegli odori, di tutte le parole nuove che sente. Continuamente chiede: “Cosa è quello? Che colore è questo? Cosa è un etto? Come si mangia quest’altro?” e la mamma pazientemente lo introduce al nome della frutta e degli ortaggi, alle unità di misura, ai nomi dei colori ed a tutti quei segni convenzionali che noi assegniamo alla realtà circostante attraverso il linguaggio.

Perché è così che combattiamo l’universale esperienza angosciante dell’ignoto: cerchiamo di renderlo noto dando un nome, un’etichetta a tutto ciò che ci circonda, rendendo così la realtà familiare. Con il tempo poi, e con l’acquisizione di nuovi termini e nuovi concetti, una parola per ogni fenomeno non è sufficiente: abbiamo bisogno di classificare, di organizzare tutti gli stimoli, di riporli in ordinati cassetti, così da ottenere un’illusione di controllo, l’illusione di avere ogni cosa al proprio posto. È così che funziona il processo di conoscenza. È così che l’esperienza del blu va nel cassetto dei colori, l’esperienza del treno va nel cassetto dei mezzi di trasporto, l’esperienza delle margherite va nel cassetto dei fiori … e l’esperienza dei pollini va nel cassetto delle allergie. 

Ma non tutti soffrono di allergia ai pollini, qualcuno potrebbe obiettare. Giusto! Questo perché l’esperienza del mondo che noi facciamo e che classifichiamo è estremamente soggettiva e perché la realtà non viene registrata esattamente così com’è, ma rielaborata attraverso gli schemi mentali che possediamo e costruiamo con l’esperienza, che ci permettono di plasmare categorie adeguate a contenere ogni simbolo della nostra esperienza.

Il processo di categorizzazione non riguarda solamente il mondo degli oggetti, ma anche, per dirla in termini analitici, il mondo oggettuale, ovvero il mondo relazionale. Come per combattere l’angoscia dell’imprevedibilità del comportamento della materia, ideiamo teorie fisiche, così per combattere l’angoscia dell’imprevedibilità del comportamento umano, ideiamo teorie sociali. Come ci interessa prevedere cosa accade se un bicchiere d’acqua cade sul pavimento, così ci interessa sapere quali sono le conseguenze comportamentali del sentimento di rabbia. L’essere umano è infatti uno scienziato ingenuo: da date premesse crea delle teorie che possano spiegare certe conseguenze. A partire da un comportamento osservabile, creiamo, attraverso un processo deduttivo, delle inferenze comportamentali. In parole semplici, ci aspettiamo che qualcuno si comporti in un certo modo perché si trova in un determinato contesto situazionale ed ha determinate caratteristiche personali, che permettono di far rientrare quell’insieme di stimoli all’interno di una specifica categoria sociale. L’identificazione di un individuo con una determinata categoria, l’etichetta che affibbiamo a quell’individuo in base alle sue caratteristiche, ci permette di prevedere e spiegare i suoi comportamenti. Se ad esempio siamo al ristorante e vediamo il cameriere avvicinarsi con dei pezzi di carta, non ci sforziamo molto per arrivare a capire che probabilmente non sta per aggredirci o insultarci, ma ci sta portando il menù per poter ordinare. Le categorie sociali dunque operano a livello inconsapevole e ci permettono di risparmiare energie psichiche, altrimenti investite nel cercare di comprendere un comportamento che risulta sempre nuovo ed unico ed a prevederne il successivo.

Allo stesso tempo però, queste euristiche o scorciatoie mentali possono dimostrare di essere delle armi a doppio taglio, laddove si irrigidiscono e trascurano la ricchezza delle possibili espressioni dell’umano. Lo stereotipo, permettendo di prevedere in maniera pressoché certa il comportamento di un individuo appartenente ad una determinata categoria, non lascia spazio alla personalità, alla variabilità, all’imprevedibilità, rendendo povero e bidimensionale il comportamento umano. Molti dei nostri stereotipi, come quelli legati al genere, sono mutuati culturalmente, e ci spingono ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell’attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini con il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che blocca il computer da parte di un’amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario, vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento.

Sapendo dunque come un individuo si comporterà in una data situazione, è possibile inquadrarlo in una categoria in relazione al comportamento che si pensa che compirà successivamente. Questo procedimento è detto pre-giudizio, ovvero un giudizio che viene dato a priori sull’altro, senza che lo si conosca approfonditamente o in maniera diretta, sulla sola base dell’apparenza, prima che egli abbia la possibilità di mostrare il suo vero modo di essere. I pregiudizi nei confronti di una determinata categoria di individui, normalmente appartenenti ad un gruppo o una categoria ben diversa da quella a cui apparteniamo noi, generano a loro volta una serie di atteggiamenti, e quindi di comportamenti, messi in atto nei loro confronti. Comportamenti di evitamento, diffidenza, addirittura di paura. Questa rigida difesa che mettiamo in atto per difenderci dall’angoscia dell’ignoto, dal sentimento di mancanza di controllo fa sì che noi ci arrocchiamo nel nostro modo di vedere la realtà e che rendiamo inscalfibili le nostre convinzioni.

E’ a questo punto che i colori della realtà perdono la loro vividezza, che l’esperienza sensoriale diventa sbiadita e che perdiamo la curiosità di un bambino che per la prima volta si trova a fare i conti con una realtà a tre dimensioni che ha molto di più da offrire. Quando è invece auspicabile ritrovare l’entusiasmo di un’esperienza genuina senza categorie nè preconcetti.

Dott.ssa Giulia Radi

Riceve su appuntamento a Perugia
(+39) 3200185538
giulia.radi@hotmail.it

Per approfondire:

Beauvoir S. de (1949) “Il secondo sesso”

Mazzara B. (1997) “Stereotipi e Pregiudizi”

Moscovici S. (1961) “Le rappresentazioni sociali”

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