Un infinito Addio
Dalla diagnosi di un male incurabile alla separazione

“La vita è una condanna a morte.E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla, senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini. ” Oriana Fallaci

La morte è una certezza che proviamo a nasconderci per tutta la vita. Nei pensieri e nelle azioni quotidiane allontaniamo l’idea di morte, rimuovendo dalla coscienza il nostro essere mortali per poter vivere. Pensiamo inconsapevolmente alla morte come l’esatto opposto della vita, quando (riflettendoci) il contrario di morire è semplicemente nascere e non vivere… vivere rappresenta tutto ciò che riusciamo a fare fra un inizio ed una fine, la modalità in cui riusciamo a riempire a nostro modo momenti di solitudine e di compagnia. È faticoso pensare razionalmente alla vita come un’opportunità di viaggio con data di arrivo sconosciuta. È spaventoso affrontare la vita con la consapevolezza di non averne abbastanza controllo. Siamo profondamente spaventati dall’essere impotenti, in fondo, che molto spesso non riusciamo neanche a pensarlo.

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Donne e Cancro. In guerra con se stesse

Sorrow, Van Gogh

Lo sentii quasi subito. Tutto, era già partito: umori, dinamiche e pensieri. Detti e non – detti, piacevoli e spiacevoli. Gli elementi indicativi di un transfert già potente e pesante, c’erano tutti (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Nella stanza d’analisi – La svolta in un agìto” e “Relazioni terapeutiche – Riflessioni su un caso di buona separazione”). Mi vedevo già lì, intenta a percorrere un sentiero psichico che non sapevo ancora dove mi avrebbe condotto; ma, nonostante tutto, io c’ero, e non avevo alcuna intenzione di fuggire. Per certi versi, si presentò proprio come me l’ero figurata, Carla: a vederla così agghindata si faceva fatica a crederlo, eppure la paziente, splendida donna dagli occhi color nocciola, era prossima ai settanta. E glielo lessi subito sul volto quanto aveva vissuto: un’anima che la vita l’aveva divorata, attraversandola in ogni anfratto e tenendo il piede perennemente puntato sull’acceleratore. Che non si era mai fermata, e forse, neppure ascoltata. Un’anima, che facevi fatica a seguire lungo i discorsi che instancabilmente delineava, tante erano le “cose” e le persone di cui aveva amato circondarsi sino ad allora. Il fare sofisticato, un’intelligenza viva e pungente, eh quel sorriso dolcissimo anche se appena accennato. Ma di colpo, si faceva largo un’ombra, pronta ad incupirla dal di dentro sino a gelarne i densi racconti: quando era il buio a regnare su di lei, sembrava quasi assumere altre sembianze, Carla; l’espressione si faceva inquieta, a tratti interrogativa, ed il volto era talmente provato da condizionarne temporaneamente le fattezze, salvo poi restituirgliele intatte. Eccola lì – pensai anche quella volta – è nuovamente “tornata in sé”.

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La malattia oncologica
Il male senza nome

La malattia oncologica nel nostro paese risulta essere sempre più diffusa, affrontala non è facile come non è facile affrontare l’intervento e le successive terapie. Molti lo chiamano il male del secolo, altri hanno addirittura paura di nominarlo…il male senza nome.

Alcune delle mie pazienti raccontano che la cosa più dolorosa da affrontare, ancora più dolorosa e distruttiva della diagnosi, è il modificarsi delle relazione con parenti e amici. Nel giro di pochi secondi si passa da uno status di persona come tante altre, ad uno di malato.

L’intervento chirurgico, per quanto moderno e all’avanguardia modifica in modo invasivo parti del corpo, portando un disconoscimento di sé. Un sé difficile da tenere integro, anche perché influenzato dall’immagine sociale che gli altri hanno: l’eventuale mutilazione causata dall’intervento, può influire su ciò che gli altri pensano del malato e questo può portare un senso di vergogna che spinge verso l’isolamento e la solitudine.

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La Sindrome di Asperger
L’arte speciale di comunicare un bisogno celato

L’arte rappresenta un veicolo indispensabile alla nostra crescita personale. In ogni sua forma ci permette di entrare inconsapevolmente in contatto con la dimensione sconosciuta dell’altro, nella profondità di un sentimento, di un vissuto, anche di un malessere fino a quel momento estraneo a noi.  L’arte non è un quadro di Van Gogh: l’arte è quella sensazione che ci pervade vedendo per la prima un quadro di Van Gogh. È il vissuto dell’artista; è il nostro.

Ogni forma d’arte ci dona la possibilità di costruire nostre, uniche percezioni sul mondo, immergendoci in realtà impossibili da percepire altrimenti senza essere l’altro. In sintesi, ci rende ricchi.

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Oncologia e sessualità femminile
Scoperchiare il vaso di Pandora

Waterhouse John William “Pandora” (1986)

Sono passati solo due anni da quando ho cominciato a lavorare con pazienti oncologici e ricordo molto bene che la prima volta ero molto preoccupato: avrei dovuto vedere una donna che aveva avuto un linfoma ed aveva appena terminato i cicli di chemioterapia. La domanda che mi continuava ad angosciare era “cosa mai potrò fare io per fornire un sostegno a questa persona?”. La domanda potrebbe essere valida per qualsiasi tipo di paziente, ma quando ti trovi di fronte a questo tipo di male ti senti realmente impotente. Sbagliavo. Non soltanto perché ero concentrato sul fatto che avrei dovuto fare o dire qualcosa che avrebbe fatto stare meglio l’altro, delirio di onnipotenza narcisistico dello psicologo alle prime armi, quanto per le aspettative che mi ero creato su ciò che avrebbe voluto la paziente dai nostri incontri. Quello che mi stupì fu che durante le sedute, la paziente parlava della malattia solo in parte, per il resto del tempo mi spiegava le sue preoccupazioni per la figlia che non voleva andare all’università, per il padre anziano con cui aveva rapporti conflittuali, per il marito che non la guardava più come una volta e soprattutto perché dopo la malattia non si sentiva più donna. Per me non era così ovvio che la malattia e queste problematiche fossero collegate. Ingenuamente mi domandavo come fosse possibile che questa signora, dopo aver rischiato la sua vita, subìto un intervento, passato mesi in ospedale e che si presentava con un foulard in testa per nascondere la caduta dei capelli e una mascherina sulla bocca per evitare il contagio di malattie viste le difese immunitarie basse, si preoccupasse di altro che non fosse la sua salute. Sbagliavo ancora.

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