Nella stanza d’analisi. La svolta di un agito

Beatrice si presenta per il primo colloquio con diversi minuti d’anticipo. Bussa tutt’a un tratto ed io sono come presa di soprassalto, faccio per alzarmi, così da accoglierla sulla porta, ma non ne ho il tempo. La paziente è già entrata. Sono un po’ spiazzata, ma chiaramente mi accingo a darle la mano e a presentarmi prima di chiudere la porta alla mie spalle: lei si è già accomodata sulla sedia senza neppure ricambiare il mio tentativo di saluto. Il tutto senza avermi mai guardata negli occhi. Mi scruta da dietro i suoi grandi occhiali scuri, Beatrice, quegli occhiali che terrà per l’intera durata del primo colloquio e che immediatamente richiamano alla mia memoria quelli della Mondaini, ma i suoi sono solo timidi e frammentari accenni di uno sguardo che stenta a concedermi. La paziente è rigida, come avvolta dentro ad un guscio protettivo, addosso avverto tutta quella sua chiusura mista ad un senso di vergogna che ancora non so “dove” collocare.

Non appena Beatrice inizia a pronunciare le prime parole da dietro le sue spesse lenti nere, mi accorgo che biascica giusto un po’ nell’articolazione delle frasi e adesso che è rivolta verso di me posso cogliere una lievissima paresi facciale, forse camuffata dalle numerose rughe che segnano e accompagnano il suo volto e dall’ampia forma degli occhiali. Non passerà molto tempo prima che la paziente mi sottolinei di quel fastidio per lei così invalidante, unitamente al risvolto lessicale che le comporta, cosa che evidentemente deve farla sentire osservata ed “in mostra”, suo malgrado. Cerco di rassicurarla a riguardo, dicendole che se lei non me lo avesse fatto presente, personalmente, quasi non me ne sarei accorta. Questo sembra attenuare un minimo la sua ansia e la sua distanza, tanto che per la prima volta solleva gli occhiali per un istante, per meglio mostrarmi la sua paresi. E’ una donna estremamente sofisticata Beatrice, un po’ come il suo lessico e le sue osservazioni. Adesso, che mi spiega e descrive con minuzia di particolari ed un velato imbarazzo la sua condizione e tutto ciò che le suscita a contatto con gli altri, comprendo perché avesse evitato d’incontrare il mio sguardo sin da principio.

Penso anche a tutte quelle volte in cui avrà incrociato gli occhi degli altri e mi dico che probabilmente li avrà vissuti come impregnati di scherno e di quella pungente curiosità morbosa, e ancora, penso che lo stare di fronte a me in quella stanza, rappresenti per lei una situazione di grande esposizione e vulnerabilità retta a fatica. Nonostante l’impatto iniziale non semplice per entrambe, la paziente mi racconta parecchio di sé e una volta terminato il nostro tempo la congedo, non prima però di aver fissato l’appuntamento successivo. Forse a causa della mia concentrazione sui molti temi della seduta, o per via del tempo ormai scaduto, o ancor più semplicemente perché psicoterapeuta specializzanda alla prime armi, sul finire compio un errore con la paziente: “dimentico” di lasciarle il mio numero di telefono per le eventuali e future comunicazioni che avesse voluto farmi. In realtà, della mancanza in questione non mi accorgerò nell’immediato: sarà grazie ad un messaggio della paziente, traslato su un terzo ma destinato a me, che avrò modo di riflettere in profondità su quanto accaduto.

Così, una volta colto l’errore cerco di correggere il tiro: contatto la paziente scusandomi per la spiacevole s-vista e le fornisco finalmente il mio recapito. Questo deve evidentemente aver smosso qualcosa nel profondo, perché dal colloquio successivo in poi, la paziente toglierà i suoi grandi e scuri occhiali lasciandoli deposti sulla mia scrivania per l’intera seduta, permettendo inoltre ad entrambe anche l’avvio di un’intensa interazione visiva. La mia mancanza, aveva cioè fatto sentire la mia paziente come non vista, suscitando evidentemente in lei gli stessi dolorosi sentimenti già sperimentati nel suo contatto con gli altri. Senza che me ne accorgessi, avevo compiuto un agìto nel transfert: in poche parole, avevo come rispedito al mittente la sua sensazione di non essere stata vista.

Durante la seduta, i pazienti trasferiscono su di noi i propri vissuti emotivi di sempre, esperiti nelle relazioni primordiali con le figure più significative della loro esistenza; l’intero mondo interno è cioè riproposto nel “qui e ora” dello spazio terapeutico in tutta la sua potenza, finendo così con l’investirci pienamente (transfert). Il complesso dei sentimenti, degli impulsi, dei desideri che questo mondo interno porta con sé, in quanto estremamente doloroso e carico di un’ingente quota di conflittualità interna, viene letteralmente scaricato nell’azione (agìto), piuttosto che essere modulato nel suo impattare su di noi attraverso il linguaggio. Spesso si ha la malsana convinzione che il terapeuta non compia esso stesso degli agìti, essendo in prima istanza tendenzialmente “allenato” all’elaborazione del proprio controtransfert (corrispondente al movimento emotivo del  terapeuta in relazione al mondo interno del paziente, che se ascoltato con attenzione costante gli permette di far luce su ciò che accade ad ambo le parti nel rapporto terapeutico, di cui acquisisce così una sempre maggiore consapevolezza): la verità è che nella pratica clinica ciò può accadere anche al terapeuta più esperto e addestrato e addirittura, quando in un primo momento dovesse mancare di elaborarne il senso, in qualche modo “agendolo” a sua volta, superato l’iniziale dis-conoscimento, esso (l’agìto),  detta la vera svolta. La stanza d’analisi finisce così con l’arricchirsi di nuovi elementi fecondi per il prosieguo della relazione terapeutica stessa. Pertanto, lungi dall’essere aspetti leggibili solo in chiave negativa, gli agìti possono e devono d’altro canto esseri intesi in tutt’altra accezione: possedendo in sé una carica riflettente i vissuti interni del paziente in analisi, vanno perciò letti come elementi profondamente trasformativi che, se opportunamente riconosciuti e usati ai fini terapeutici, permettono il superamento di una situazione di impasse in cui ci si era inconsapevolmente immessi. Alle volte, l’accesso allo sconfinato mondo interno dei pazienti, segue percorsi tutt’altro che lineari, che ciononostante finiscono col ripagarci attraverso il dono di una sintonizzazione emotiva finalmente raggiunta: con queste nuove acquisizioni si può ben sperare di aiutare i nostri pazienti nel metabolizzare al meglio tutti quegli aspetti della propria esistenza sinora rimasti “indigeriti”.

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

Per approfondire:

  • Freud. S., Metapsicologia, Boringhieri, Torino, 1976.
  • Semi A. A. Trattato di psicoanalisi, Cortina, Milano, 1989      
  • Ferro A., Nella stanza d’analisi. Emozioni, racconti, trasformazioni. Raffaello Cortina, Milano, 1996

Commento

  • Mi domando se il suo agito in questo caso non sia invece proprio l’accogliere il bisogno della paziente di non essere vista, per via del suo aspetto. Convivere con le difese e le resistenze del paziente dà a quest’ultimo la sensazione di essere accettato: un passo preliminare per il lavoro sulle resistenze stesse.
    Le scuse per la svista invece credo che siano per la paziente un chiaro segnale della cura con cui viene accolta, dell’attenzione alla qualità della relazione, che distingue uno psicoterapeuta dai modi tipici delle consultazioni mediche. Questa cura e questa attenzione fanno sì che la paziente possa progressivamente abbassare la guardia.
    Ricordiamoci infine quanto anche noi psicoterapeuti portiamo gli occhiali scuri quando cerchiamo di apparire neutrali e di nascondere la nostra natura.
    Un cordiale saluto.
    Claudio Merini

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