Con un gran frullo d’ali dal campo, spaventati, i passerotti in frotta al nido son rivolati.
Raccontano ora al nonno la terribile avventura: “C’era un uomo! Ci ha fatto una bella paura.
Peccato per quei chicchi sepolti appena ieri. Ma con quell’uomo… Ah, nonno, scappavi anche tu, se c’eri.
Grande grande, grosso grosso, un cappellaccio in testa, stava li certamente per farci la festa…”. “E che faceva?”. “Niente. Che mai doveva fare? Con quelle braccia larghe era brutto da guardare!”.
“Non lavorava?”. “O via, te l’abbiamo già detto. Stava ritto tra i solchi con aria di dispetto…”.
“Uno spaventapasseri, ecco cos’era, allora! Non sapevate che non è un uomo chi non lavora?”.
Un potente stregone, con l’intento di distruggere un regno, versò una pozione magica nel pozzo dove bevevano tutti i sudditi. Chiunque avesse toccato quell’acqua, sarebbe diventato matto.
Il mattino seguente l’intera popolazione andò al pozzo per bere. Tutti impazzirono, tranne il re, che possedeva un pozzo privato per sé e per la famiglia, al quale lo stregone non era riuscito ad arrivare. Preoccupato, il sovrano tentò di esercitare la propria autorità sulla popolazione, promulgando una serie di leggi per la sicurezza e la salute pubblica. I poliziotti e gli ispettori, che avevano bevuto l’acqua avvelenata, trovarono assurde le decisioni reali e decisero di non rispettarle.
Quando gli abitanti del regno appresero il testo del decreto, si convinsero che il sovrano fosse impazzito, e che pertanto ordinasse cose prive di senso. Urlando si recarono al castello chiedendo l’abdicazione. Disperato, il re si dichiarò pronto a lasciare il trono, ma la regina glielo impedì, suggerendogli: – Andiamo alla fonte, e beviamo quell’acqua. In tal modo saremo uguali a loro -. E così fecero: il re e la regina bevvero l’acqua della follia e presero immediatamente a dire cose prive di senso. Nel frattempo, i sudditi si pentirono: adesso che il re dimostrava tanta saggezza, perché non consentirgli di continuare a governare?
“Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano 50mila anni‐luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame…”
“Quella mattina una volpe se ne andava tranquilla per i prati rifioriti dopo la brutta stagione invernale. All’improvviso la sua attenzione venne richiamata da un violento ruggito. Era un verso che non aveva mai sentito e, terrorizzata, fuggì a nascondersi dietro ad un cespuglio. Da li poté vedere, riparata tra le foglie, il terribile animale che aveva emesso quel suono: si trattava di un leone, una bestia a lei sconosciuta. Spaventata, la povera volpe, scappò via il più velocemente possibile. Trascorsero un paio di giorni dopo quel brutto incontro che sembrava quasi essere stato dimenticato, quando, d’un tratto, la piccola volpe si imbatté ancora nel leone. Questa volta il Re della foresta le apparve proprio davanti ostacolandole il cammino. Essa, impaurita, iniziò a tremare come una foglia senza tuttavia fuggire ma rimanendo ferma al suo posto fino a quando il leone non si allontanò. La terza volta che la volpe si imbatté in quel grosso animale scoprì che il proprio timore nei suoi confronti andava pian piano assopendosi. Così, durante il successivo incontro con il leone, si dimostrò più calma e riuscì persino a salutarlo con un cordiale ‘buongiorno!”.Infine, quando lo rivide, la volpe provò a parlargli e riuscì finalmente a scoprire in lui doti come il coraggio e l’intelligenza. Da quel giorno non si stancò mai di ascoltarlo sicura che, dall’esperienza di un animale così astuto e bravo cacciatore, avrebbe tratto solo vantaggi.”
“Spesso le persone non hanno emozioni chiare, altro che idee.” (Diego De Silva)
Una delle nostre difficoltà è riuscire a vivere le emozioni tanto che spesso ci chiediamo se proviamo davvero quello che sentiamo o se le emozioni che proviamo siano vere. A volte ci chiediamo cosa stiamo provando esattamente, travolti da una complessità emotiva che non riusciamo a decodificare.
Non è facile capire cosa proviamo come non è semplice concedersi la libertà di vivere pienamente le emozioni che accadono senza che esse, non solo semplicemente esistano, ma abbiano la facoltà di essere vissute. Per tutta la nostra esistenza riconosciamo come forte il desiderio di vivere le nostre emozioni e spesso di essere addirittura travolti da esse ma passiamo la maggior parte del tempo a schermarci e difenderci quando abbiamo il sospetto che le emozioni possano essere troppo sconvenienti; così permettiamo il passaggio soltanto di alcune emozioni, una piccola parte di esse che può accedere alla nostra mente in modo tale che possiamo controllare quanto possiamo effettivamente essere travolti emotivamente; e il desiderio di vivere esperienze turbolenti può essere pura illusione.
“Un uomo trovò un uovo d’aquila e lo mise nel nido di una chioccia. L’uovo si schiuse contemporaneamente a quelle della covata, e l’aquilotto crebbe insieme ai pulcini. Per tutta la vita l’aquila fece quel che facevano i polli del cortile, pensando di essere uno di loro.
Frugava il terreno in cerca di vermi e insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro. Trascorsero gli anni, e l’aquila divenne molto vecchia. Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d’aria, muovendo appena le robuste ali dorate.
La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita: “Chi è quello?”, chiese. “E’ l’aquila, il re degli uccelli” rispose il suo vicino. “Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli.”
“Un uomo burbero e dalla lunga barba color blu cerca moglie. Decide di corteggiare tre sorelle: due lo rifiutano per via del suo aspetto fisico, mentre la terza, nonostante sia diffidente, si lascia convincere dalle ricchezze e dall’apparente gentilezza dell’uomo. Accetta dunque di sposarlo diventando padrona del suo immenso castello e dei suoi tesori.
Prima di partire per un viaggio, Barbablù lascia alla moglie un enorme mazzo di chiavi esortandola a godere di tutte le bellezze presenti nel castello di cui lei è regina. Le dice che può visitare ogni stanza della casa tranne una, dalla quale deve tenersi lontana e dove non può assolutamente entrare. La moglie, dopo aver invitato le sorelle, incuriosita dal divieto posto dal marito, decide di mettersi alla ricerca della stanza proibita e di aprirla. Al suo interno trova le precedenti mogli di Barbablù morte. Come lei avevano disubbidito all’ordine del marito e per questo erano state uccise.Le tre sorelle richiudono immediatamente la porta cercando di mantenere il segreto ma, in quel momento, la chiave che era servita ad aprire la stanza, inizia a sanguinare senza smettere. Al suo ritorno, Barbablù scopre subito l’accaduto e si prepara a uccidere la giovane moglie disubbidiente. Ella, però, riesce a prendere tempo con la scusa di un’ultima preghiera durante la quale, telepaticamente, fa accorrere i fratelli. Una volta arrivati riescono a salvare la sorella uccidendo Barbablù.”
“Stregatto, […] potresti dirmi, per favore, quale strada devo prendere per uscire da qui?” “Tutto dipende da dove vuoi andare,” disse il Gatto. “Non mi importa molto…” disse Alice. “Allora non importa quale via sceglierai,” disse il Gatto. “…basta che arrivi da qualche parte,” aggiunse Alice come spiegazione. “Oh, di sicuro lo farai,” disse il Gatto, “se solo camminerai abbastanza a lungo.” Alice sentì che tale affermazione non poteva essere contraddetta, così provò con un’altra domanda: “Che tipo di gente abita da queste parti?” “In quella direzione,” disse il gatto, agitando la sua zampa destra, “vive un Cappellaio: e in quella direzione,” agitando l’altra zampa, “vive una Lepre Marzolina. Visita quello che preferisci: tanto sono entrambi matti.” “Ma io non voglio andare in mezzo ai matti,” si lamentò Alice. “Oh, non hai altra scelta,” disse il Gatto: “qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.” “Come lo sai che sono matta?” disse Alice. “Devi esserlo,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qua.” Alice non pensava che questo bastasse a dimostrarlo; ad ogni modo, andò avanti “E come sai di essere matto?” “Per iniziare,” disse il Gatto, “un cane non è matto. Concordi?” “Immagino sia così,” disse Alice. “Bene, allora,” il Gatto andò avanti, “vedi, un cane ringhia quando è arrabbiato, e scodinzola quando è felice. Io ringhio quando sono felice, e agito la coda quando sono arrabbiato. Quindi sono matto.” “Io lo chiamo fare le fusa, non ringhiare,” disse Alice. “Chiamalo come preferisci,” disse il Gatto […]
“Si racconta che al tempo, in un vilaggio di pescatori, vivesse un giovane alto e forte di nome Pizzomunno. Sempre nello stesso luogo abitava anche una fanciulla di rara bellezza, con i lunghi capelli color del sole di nome Cristalda. I due giovani si innamorarono, amandosi perdutamente senza che niente potesse separarli. Pizzomunno ogni giorno affrontava il mare con la sua barca e le sirene emergevano dal mare per intonare in onore del pescatore dolci canti. Le creature marine, prigioniere dello sguardo di Pizzomunno, gli offrirono diverse volte l’immortalità se lui avesse accettato di diventare il loro re e amante.L’amore che il giovane riversava su Cristalda, però, rendeva vane le offerte delle sirene. Una delle tante sere in cui i due amanti andavano ad attendere la notte sull’isolotto che si erge di fronte alla costa, le sirene, colte da gelosia, aggredirono Cristalda e la trascinarono nelle profondità del mare. Pizzomunno rincorse invano la voce dell’amata. I pescatori il giorno seguente ritrovarono il giovane pietrificato dal dolore nel bianco scoglio che porta ancora oggi il suo nome. Ancora oggi ogni cento anni la bella Cristalda torna dagli abissi per raggiungere il suo giovane amante e rivivere per una notte sola il loro antico amore.”
“ Immaginate una pentola piena d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce bollita.Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.”
Il principio della “rana bollita” è stato usato dal filosofo Noam Chomsky per indicare l’attitudine dei popoli ad adattarsi e accettare situazioni sfavorevoli, negative e opprimenti. Viene usato specialmente in sociologia per descrivere alcune dinamiche di potere, soprattutto moderne, nelle quali vengono cambiate le regole della società, procedendo per step, facendo abituare lentamente le masse anche a conseguenze avverse e sfavorevoli.
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