Autore: Valentina Merola

Il corpo, tra simbolo e parola

Donna con mani incrociate, vista di schiena- Egon Schiele

Egon Schiele, pittore austriaco vissuto agli inizi del Novecento, racconta la poetica sottesa alle proprie opere attraverso la rappresentazione del corpo; dipinto come torbido, caotico, espressione di desiderio e di caducità della vita. Attraverso forme scomposte e incerte descrive il movimento dinamico di un corpo, contenitore di un’interiorità tormentata, la cui unica pretesa risulta essere l’esistere. Un’ esistenza senza spazio e senza tempo, le ambientazioni sfumano, l’età dei soggetti appare secondaria. Il corpo in questo senso sembra essere il veicolo di qualcosa di inespresso, che trova difficilmente rivelazione mediante la parola.  Ciò però non lo rende privo del significato più profondo che custodisce; nel coacervo di emozioni e sensazioni, che tali raffigurazioni suggestionano nello spettatore, domina il senso di ineffabilità circa un nucleo emotivo magmatico. La rappresentazione del corpo in tale paradigma artistico, può rimandare a quello che nel campo psicologico risulta essere un corpo trascurato all’interno delle relazioni primarie e che si fa, per questo, emblema di tutte le sue contraddizioni affettive.

Quando si parla di traumi evolutivi si ha a che fare con tutte quelle rotture avvenute all’interno delle esperienze di reciprocità, che non hanno permesso l’adeguato sviluppo dei sistemi di risposta emotiva: neurofisiologico, comportamentale-espressivo, cognitivo-esperienziale. Senza questi il soggetto si vede sfornito della possibilità di poter tradurre le emozioni in sentimenti, di poterle elaborare, modulare e verbalizzare con l’ambiente esterno. Si delinea così una disconnessione tra i livelli fisiologici e comportamentali e la capacità di usare le emozioni come sistemi motivazionali, dando luogo ad una disregolazione emotiva.

All’interno del contesto di accudimento primario, a cui ci si riferisce in termini di attaccamento, il trauma incide nella misura in cui il bambino, alla ricerca di aiuto e conforto di fronte alle esperienze emotivamente impattanti, trova nel caregiver risposte spaventate e spaventanti, che si traducono di fatto nell’indisponibilità alla modulazione e all’elaborazione di quanto da lui richiesto. In tale cornice, quest’ultimo, per fronteggiare gli stimoli conflittuali, potrà ricorrere abitualmente alla dissociazione patologica dove il contatto con la realtà si poggia sull’utilizzo di regolatori esterni, come ad esempio comportamenti compulsivi e addiction.

Ciò che non può essere adeguatamente simbolizzato rimane intrappolato nel corpo, senza essere verbalizzato, sfociando spesso nell’alessitimia, intesa come la difficoltà di elaborare ed individuare gli affetti.  Le emozioni e le sensazioni che non trovano voce, si manifestano quindi attraverso il corpo, che viene attaccato, fendendo la continuità tra passato e presente. Questo accade soprattutto in adolescenza, quando il corpo si trova ad affrontare tutte le trasformazioni puberali, che portano all’emergere del corpo sessuato e dove l’individuo deve confrontarsi necessariamente con le frontiere del tempo, rese manifeste dai mutamenti fisici. Il corpo, tempio di un’identità in definizione, risulta iperinvestito affettivamente e diventa bersaglio di agiti non pensati. La dissociazione diventa quindi la porta d’accesso a comportamenti a rischio, dove spingere il corpo al limite sembra essere l’unico modo per sentirsi. Autoinfliggersi dolore, attraverso i morsi della fame o i tagli sulla pelle, provoca sensazioni vive, che illudono l’adolescente di poter arginare o puntellare il vuoto che costantemente lo domina. In un regime autarchico l’adolescente sente di poter governare se stesso, accontentandosi di un corpo danneggiato come bussola, senza credere di avere necessità dell’Altro, perché visto e vissuto, sulla base delle rappresentazioni primarie, come persecutorio e irraggiungibile.

Dare senso a tali comportamenti regolatori e ripartire dalle sensazioni ricercate ed esperite, rappresenta il primo tassello all’interno di un intervento terapeutico allo scopo di potersi riappropriare delle emozioni considerate intollerabili, di modularle, pensarle e verbalizzarle in un contesto protetto e di cura. Il trattamento terapeutico in questo senso si fa carico del compito di integrare quelli che Wilma Bucci, nella sua Teoria del Codice Multiplo, ha definito come i tre canali che permettono la processazione delle informazioni e il successivo sviluppo di rappresentazioni interne. I tre livelli delineati sono: il modo subsimbolico non verbale, il modo simbolico non verbale ed il modo simbolico verbale.

Il primo riguarda tutti quegli stimoli (sentimenti, informazioni motori e sensoriali) che vengono processati in “parallelo”, il secondo si riferisce alle rappresentazioni mentali che non possono essere rese in parola e il terzo riguarda invece quei contenuti relativi al mondo interno che hanno la possibilità di essere comunicati all’ esterno.

Attraverso la connessione di queste tre dimensioni, nel trattamento terapeutico, si può permettere la simbolizzazione di esperienze dissociate subsimboliche così che il corpo possa vedersi scagionato dal duro ruolo di custodia e mezzo di espressione di dolori insostenibili, riappropriandosi della propria dimensione all’interno dell’esistere.

Per approfondire:

– Caretti V, Creparo G, Ragonese N, Schimmenti A. (2005) Disregolazione affettiva, trauma e dissociazione in un gruppo non clinico di adolescenti. Una prospettiva evolutiva. Infanzia e adolescenza vol. 4. n.3

-Lancini M, Cirillo L, Scodeggio T, Zanella T. (2020) L’adolescente, psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina Editore

– https://www.psychomedia.it/pm/answer/psychosoma/bucci.htm

Dott.ssa Valentina Merola

Psicologa a Roma

email: vale.merola@hotmail.it

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Incedere tra le separazioni
Nuovi luoghi per trovarsi

 Prima di mettersi in cammino si allacciano le scarpe, capita poi che lungo il tragitto ci siano dei nodi più resistenti e alcuni invece troppo lenti. Per poter continuare il viaggio spesso siamo portati a riannodare i lacci, con la speranza che almeno per quel tragitto reggano, a volte succede, a volte si slacciano nuovamente. Questi nodi metaforicamente possono considerarsi alla stregua di tutti quei legami che nel corso della vita si intessono, alcuni durano il tempo di qualche passo, altri il tempo di una maratona. Ciò che però risulta imprescindibile è il bisogno di ciascuno di noi di riannodare quei due lembi di stoffa per prevenire l’inciampo e per continuare nel nostro percorso.

 Ogni giorno ciascuno di noi si confronta con il tema della separazione che vede quei due lacci divisi, dopo un pezzo di strada insieme. Ci si separa dai genitori, dagli amici, dai partner, ma anche dai colleghi o dal cassiere al supermercato. Il terapeuta e il paziente si separano tra una seduta e l’altra, come per la pausa estiva o per la chiusura di un percorso.

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I Sette Vizi Capitali
L’ Avarizia

“Che tutto ciò che tocca il mio corpo si trasformi in oro splendente”

Il denaro è un elemento imprescindibile per ciascuno di noi, perché legato alla sopravvivenza e all’autodeterminazione. Ma cosa succede quando il legame con i beni materiali, e nello specifico con il denaro, finalizzato ad assicurare il nostro sostentamento, diventa il Legame?

La frase citata all’inizio di questo articolo é quella di re Mida, nelle metamorfosi di Ovidio, che di fronte alla possibilità di esaudire un desiderio, avrebbe scelto quello di trasformare in oro tutto quello che toccava, perché bramoso di opulenza. Il mito narra però, che poco dopo aver sperimentato questo potere divino, re Mida si sarebbe pentito della richiesta fatta perché impossibilitato a mangiare e di conseguenza a sopravvivere.

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La mentalizzazione
Un dispositivo che aiuta il corpo a pensarsi

Spesso si parla dei disturbi psicosomatici come esito di un mancato dialogo tra il corpo e la mente.  Ma cosa permette questo dialogo? E soprattutto come riesce il corpo a pensarsi?

Tale competenza sembra affondare le sue radici in un processo esordiente della nostra vita, che chiama in causa le figure primarie, il rispecchiamento.

Nel momento in cui il bambino “scopre se stesso negli occhi della madre”, questo diviene consapevole dei suoi stati emotivi, riflessi e pensati dall’Altro. In questo modo il bambino sviluppa quella capacità, denominata mentalizzazione, che consente di comprendere le intenzioni e il pensiero sottostanti il comportamento proprio e altrui. Questo costrutto sembra essere direttamente chiamato in causa nella comprensione dei segnali sprigionati dal corpo.

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Idea, attesa e incontro
La nascita come esperienza trasformativa

L’esperienza della nascita di un figlio è spesso esito di un viaggio articolato tra l’idea, l’attesa e l’incontro con l’Altro.

Tale tragitto spesso attiva nell’individuo una serie di processi di rimpasto di vissuti e desideri passati e fantasmatici. Innanzitutto, è importante considerare che il desiderio di gravidanza e il desiderio di maternità/paternità non necessariamente coincidono; mentre il primo fà riferimento al desiderio di dimostrare di “funzionare” come le proprie figure primarie e quindi di saper procreare, il secondo é strettamente connesso al desiderio di accudire, dove l’immaginare un figlio é mosso da spinte arcaiche legate alle proprie relazioni affettive e alle esperienze accuditive primarie, all’essere figli.

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Essere onlife
Alla ricerca della propria realtà

Il termine onlife coniato dal professor Floridi, filosofo e docente all’Università di Oxford, descrive un fenomeno che più o meno ampiamente interessa la vita di ciascuno di noi. Questa espressione delinea il vivere in una dimensione tra la realtà virtuale e quella materiale, i cui confini stanno diventando ormai molto labili. Ma cosa succede se tali confini si dissolvono? Quando arriviamo in un posto nuovo o stiamo partecipando ad un momento di festa, spesso, tra i primi pensieri che sfiorano la nostra mente c’è il voler condividere sui social quanto stiamo vivendo.

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