Autore: Carmela Lucia Marafioti

Pensare i suoi pensieri. Funzione alfa: la mente prestata al paziente

Trovai Paolo già lì davanti ad aspettarmi. Le cuffie nelle orecchie, ad isolarsi dal resto del mondo e lo sguardo un po’ perso e sognante rivolto all’esterno. Ricordo che quel giorno, durante l’ascolto del paziente, non riuscii a star ferma coi pensieri neppure per un attimo. Ebbi l’impressione che lui dovesse a tutti i costi riempire quello spazio col maggior numero possibile di sensazioni, fatti e parole lanciati a rotazione, senza sosta. Tutto sembrava avere un ritmo estremamente veloce e Paolo parlava in modo alquanto concitato; in mezzo a tutti quei suoi discorsi, il silenzio non era contemplato ed io senza “capirci” più niente avevo fatto un’indigestione di tutta quella roba. Ero piena. Una volta da sola, mi riservai un secondo momento per tornare indietro alla seduta e pensare nuova-mente, a tutti quei movimenti. 

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Narcisismo ed Empatia. Schizzo di un intreccio tossico

Ci sono incastri, che per quanto all’esterno suonino come evidentemente malsani e improbabili – quando non addirittura e alla lunga destinati al collasso – per qualche strana ragione e nonostante tutto, “resistono”. Di qualunque natura essi siano – sentimentali, amicali, sessuali, solo per citarne alcuni – i rapporti in questione sono caratterizzati dall’essere francamente sbilanciati; per quanto l’immagine in sé possa forse risultare assai estrema, in realtà all’interno di relazioni così distruttive si configurano chiaramente due ruoli – distinti e complementari fra loro – e due attori:  un carnefice ed una vittima, la cui amalgama dà vita a dinamiche dai contorni perversi, che – in una escalation senza fine – alimentano un’atmosfera tossica di fondo. Si pensi ad esempio all’unione fra un narcisista ed un empatico. Il primo, come si è altrove ampiamente detto, non vede che se stesso: pensieri e bisogni sono tutti auto – riferiti, laddove l’altro è usato al solo scopo di darvi compiuto accoglimento.

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Il disegno infantile
Fotografie di un mondo interno

Nei bambini, l’esplorazione e la valutazione di eventuali disagi, conflitti, traumi o disturbi esistenti, necessita da parte del clinico di tutta una serie di accorgimenti speciali vista la particolare categoria di soggetti con cui sta rapportandosi. Non a caso, il colloquio in età evolutiva – a dispetto di ciò che avviene per l’adulto –  punterà anzitutto sull’osservazione diretta del bambino e, nella fattispecie, ciò si compirà attraverso l’osservazione ludica, specie se il bambino è molto piccolo; questa scelta è per l’appunto giustificata dalla tenera età del bambino, per cui, più piccolo sarà e meno si potrà contare sulla comunicazione verbale dei suoi vissuti intrapsichici. Con ciò si spiegherebbe perché, trattandosi di bambini, la ricerca degli strumenti più adeguati da impiegare nella psicodiagnosi avvenga all’interno delle attività predilette dai piccoli: e quale migliore attività, se non quella del gioco?  (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il ruolo del gioco nello sviluppo – Da 0 a 99 anni” della rivista di Ottobre 2015).

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Eutanasia e assistenza nel fine vita
Riflessioni introduttive

“Signori Giudici, autorità politiche e religiose: cos’è per voi la dignità? Qualunque sia la risposta delle vostre coscienze, sappiate che per me questo non è vivere con dignità. Io avrei desiderato almeno morire con dignità. Oggi, stanco dell’indifferenza delle Istituzioni, sono obbligato a farlo di nascosto come un criminale. Voi dovete sapere che la meccanica che porterà alla mia morte è stata scrupolosamente divisa in piccole azioni, ognuna delle quali non costituisce reato, ognuna compiuta da una diversa mano amica; se comunque lo Stato insiste a punire chi mi ha aiutato, io suggerisco il taglio di quella mano, perché quello, è stato l’unico contributo. La testa, cioè voglio dire la coscienza, l’ho messa io. Come potete vedere vicino a me c’è un bicchiere d’acqua che contiene una dose di cianuro di potassio: una volta bevuta avrò cessato di vivere, rinunciando al mio bene più prezioso, il mio corpo. Io ritengo che vivere sia un diritto, non un obbligo, com’è stato nel mio caso, costretto a sopportare questa penosa situazione durata 28 anni, 4 mesi e alcuni giorni… alla fine di questo periodo faccio un bilancio del cammino percorso, eh non mi tornano i conti con la felicità. Solo il tempo che ho vissuto contro la mia volontà, durato quasi tutta la vita, sarà, a partire da ora, mio alleato. Solo il tempo e l’evoluzione delle coscienze, decideranno, un giorno, se la mia richiesta era ragionevole o no”.

(Ramòn Sampedro –  “Mare dentro”)

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Sindrome di Hikikomori. Al di qua della stanza

A casa loro è scesa la sera già da un po’ e i genitori di Leo sono in procinto di mettersi a tavola per la cena. Lui, invece, non ci sarà. Il suo ritmo sonno – veglia è decisamente invertito. Nei mesi, la sua assenza si è fatta consuetudine ed entrambi sembrano ormai come tristemente rassegnati all’idea di non incrociarlo più per casa. Neppure per sbaglio.

Dopo le timide e ripetute opere di convincimento dei primi tempi, puntualmente rivelatesi tutte fallimentari, la madre del ragazzo ha ben pensato di assicurargli almeno un pasto decente al giorno, cosa che fa poggiando in terra un ampio vassoio di cibo, proprio dietro la porta della sua camera. In realtà, Leo consuma il suo pasto in solitaria solo parecchie ore più tardi, quando le mura di casa sono totalmente avvolte dal silenzio della notte e lui può sentirsi libero di sgattaiolare fuori dal suo mondo senza il rischio d’incrociare disgraziatamente lo sguardo dei suoi. Leo è probabilmente uno fra i molteplici esempi di giovani vittime di un fenomeno che ormai (anche) nel nostro paese sta’ prendendo via via sempre più piede: la sindrome di Hikikomori.

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Donne e Cancro. In guerra con se stesse

Sorrow, Van Gogh

Lo sentii quasi subito. Tutto, era già partito: umori, dinamiche e pensieri. Detti e non – detti, piacevoli e spiacevoli. Gli elementi indicativi di un transfert già potente e pesante, c’erano tutti (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Nella stanza d’analisi – La svolta in un agìto” e “Relazioni terapeutiche – Riflessioni su un caso di buona separazione”). Mi vedevo già lì, intenta a percorrere un sentiero psichico che non sapevo ancora dove mi avrebbe condotto; ma, nonostante tutto, io c’ero, e non avevo alcuna intenzione di fuggire. Per certi versi, si presentò proprio come me l’ero figurata, Carla: a vederla così agghindata si faceva fatica a crederlo, eppure la paziente, splendida donna dagli occhi color nocciola, era prossima ai settanta. E glielo lessi subito sul volto quanto aveva vissuto: un’anima che la vita l’aveva divorata, attraversandola in ogni anfratto e tenendo il piede perennemente puntato sull’acceleratore. Che non si era mai fermata, e forse, neppure ascoltata. Un’anima, che facevi fatica a seguire lungo i discorsi che instancabilmente delineava, tante erano le “cose” e le persone di cui aveva amato circondarsi sino ad allora. Il fare sofisticato, un’intelligenza viva e pungente, eh quel sorriso dolcissimo anche se appena accennato. Ma di colpo, si faceva largo un’ombra, pronta ad incupirla dal di dentro sino a gelarne i densi racconti: quando era il buio a regnare su di lei, sembrava quasi assumere altre sembianze, Carla; l’espressione si faceva inquieta, a tratti interrogativa, ed il volto era talmente provato da condizionarne temporaneamente le fattezze, salvo poi restituirgliele intatte. Eccola lì – pensai anche quella volta – è nuovamente “tornata in sé”.

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Disturbo Istrionico di Personalità
Una vita, un palcoscenico

Io sono un istrione a cui la scena dà la giusta dimensione (..) Io sono un istrione ed ho scelto ormai la vita che farò (..) Con il mio viso ben truccato con la maschera che ho sono enfatico e discreto versi e prosa vi dirò (..) Con tenerezza o con furore e mentre agli altri mentirò fino a che sembri verità fino a che io ci crederò.

Charles Aznavour, “Io sono un istrione” (Le Cabotin) 1971  

A primo impatto Ilaria racchiude in sé la piena essenza contenuta nel suo nome: è una donna gioiosa, ìlare, aperta, vitale. Immaginate però, che il tutto sia elevato all’ennesima potenza. Esasperato. La sua è una bellezza rara e delicata, capace di suscitare invidie anche feroci, cosa che tuttavia, evidentemente, non le basta a sostenere un Io dai risvolti così labili. Di fatti, da lì a poco mi confesserà di ricorrere periodicamente ad infiltrazioni di acido ialuronico alternate al botulino, ma “solo per ridurre le rughe d’espressione attorno agli occhi, ringiovanire lo sguardo, marcare gli zigomi, sollevare un po’ l’attaccatura delle sopracciglia e mettere in risalto quelle labbra, per lei a suo tempo fin troppo scarne”. Ci tiene a specificarmi che trattasi d’interventi di medicina estetica, non di chirurgia plastica. Mi chiedo che bisogno abbia di rendere via via sempre più artefatta una bellezza di cui Madre Natura le ha già fatto abbondante dono e nel pensarlo mi accorgo di nutrire per lei una certa tenerezza. Un giorno decide di mostrarmi alcune fra le sue ultime immagini: auto – scatti che la ritraggono in ogni dove ed in tutte le salse.

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Sull’alcolismo
Aggrappàti a un sorso in più

Fine maggio. Un’altra calda e intensa giornata era ormai tramontata. Così, col sole alle loro spalle, Barbara e Paolo – cresciuti insieme e amici per la pelle da oltre un ventennio – si accingevano a prepararsi per il lungo sabato sera che li attendeva. Prima una frugale cenetta a tu per tu, poi giù in piazza per una bevuta con l’intero gruppo, ed infine tutti insieme a fare quattro salti in discoteca, fino alle prime luci dell’alba. Era un bel giovane uomo, il timido Paolo. L’animo gentile, il cuore pulito e tutte le donne del mondo ai suoi piedi. Eppure, c’era in lui qualcosa d’inafferrabile, una scomoda quanto ingestibile parte che faceva il suo ingresso solo nel buio della notte, quando immerso nel clima danzereccio e goliardico generale perdeva pian piano ogni tipo di freno, diventando fumoso e fastidioso tanto quanto le luci accecanti e stroboscopiche dei suoi amati locali. Ogni festino che si rispettasse diveniva teatro di quella sua reversibile e spaventosa trasformazione: via via che l’alcol  andava giù, a fiumi, lui si faceva sempre più pedante, rumoroso. Litigioso.

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Nella mente del bambino
L’uso dell’oggetto: alla scoperta del mondo

Soffermandoci attentamente sulle fasi di sviluppo più precoci dell’infante, uno degli aspetti che appare forse più prepotentemente sulla scena è la modalità d’interazione che il bambino intrattiene col proprio mondo. Al centro di quell’universo, il bambino colloca anzitutto la propria madre, qui concepita come sua estensione e primo oggetto d’amore indiscusso su cui andrà a riverberarsi ogni sua proiezione e ambivalenza (per un approfondimento, si rimanda all’articolo Amore e odio. Bambino, oggetto e spinta alla riparazione. Il momento evolutivo qui descritto è indubbiamente connotato da un egocentrismo di fondo di cui l’infante è pienamente intriso: agli occhi di un bambino così piccolo, l’esistenza di oggetti posti nel mondo è tale semplicemente perché lui ha dato loro vita e lì, li ha collocati. In un simile spazio – tempo, ancora estremamente lontano dall’idea dell’altro – da –  sé – le relazioni intrattenute dal bambino sono tutte intessute sulla base di una percezione soggettiva della realtà, in cui cioè il mondo intero e la totalità degli oggetti che lo popolano sono un prodotto dell’infante. Una visione così peculiare delle cose può essere meglio compresa solo se associata al controllo onnipotente, un’operazione che in questa sua parte di vita occupa la mente del piccolo in modo decisamente massiccio; nella fattispecie, in questo stadio egli è solo in grado di “entrare in rapporto” con l’oggetto, spostando e agendo su di esso tutte le possibili proiezioni del caso: potremmo dire che il bambino sente come di coincidere con l’oggetto, poiché con esso s’identifica e, percependolo come un tutt’uno con sé, da esso si sente in qualche modo svuotato. 

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Obesità e Bulimia. Possibili declinazioni del vuoto

Ricordo ancora che mi svegliai nel cuore della notte, allertata da un insolito rumore proveniente dal bagno posto in fondo alla mia piccola casa. Fuori buio pesto, gli occhi semi chiusi e la mente ancora dormiente, seppur in buona parte impegnata a decifrare quegli strani e confusi segnali sonori che percepivo essere non troppo lontani dal mio letto. Ed ecco che d’improvviso riuscii a distinguere il tutto: era il tipico crunch – crunch di chi è intento a mangiare delle croccanti patatine in busta. Avevo svelato l’arcano. Quel giorno l’amica della mia inquilina si era fermata a cena da noi: entrambe avrebbero studiato fino a tarda sera in vista di un esame di biologia molecolare fissato a breve e che destava loro non poca preoccupazione. Evidentemente, credendo di non essere scoperta da nessuna di noi, complice l’ora tarda ed il silenzio della notte, aveva ben pensato di rifugiarsi fra le mura del bagno, cui aveva affidato il compito di custodire segretamente la scarica violenta e veloce di una tensione emotiva a lungo accumulata. E’ passato parecchio tempo da allora e per quanto la memoria non mi aiuti a riportare esattamente tutte le riflessioni che feci in quelle rapide frazioni di secondo, c’è però una cosa che ricordo come fosse ieri: la mia attenzione a quel rumore fragoroso e pungente, al limite del fastidioso, e in special modo la voracità sottesa e tutta concentrata in quell’azione, nitidamente percepita dalle mie orecchie. 

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