Autore: Andrea Rossetti

L’orientamento e la navigazione. Il mito delle differenze di genere

M. C. Escher, Relativity – 1936 Collezione privata

Gli uomini hanno una capacità di orientamento nello spazio superiore a quella femminile? “Mia moglie non ha alcun senso dell’orientamento, per questo guido sempre io…” Questo è quello che le dicerie comuni affermano da tempo ma, prima di svelare se il mito corrisponde a verità, facciamo un passo indietro: cosa vuol dire orientarsi nello spazio?

Gli esseri umani hanno la facoltà di imparare e ricordare le informazioni sulle relazioni spaziali nel mondo ai fini dell’adattamento. Immaginiamo quanto fosse importante sviluppare questa capacità quando non esistevano strade o mappe che ci aiutassero a tornare a casa. Gli individui percepiscono informazioni direttamente dall’ambiente e si orientano in esso, aggiornando continuamente il loro rapporto con gli oggetti che li circondano mentre si muovono nello spazio, integrando le informazioni da diverse prospettive per fornire un senso di spazio unificato. L’abilità degli umani ad apprendere e manipolare l’informazione spaziale ha ricevuto negli anni sempre più attenzione e oggi sappiamo che esistono due modi in cui gli esseri umani acquisiscono e usano l’informazione spaziale: attraverso un apprendimento primario e uno secondario. L’apprendimento primario (cioè diretto) si ha quando l’individuo interagisce direttamente con l’ambiente circostante, creando un senso di spazio vicino, rispetto al quale può agire direttamente.

Continua a leggere

L’ipocondriaco. Viaggiatore solitario

Spesso al pronto soccorso o dal medico di base si presentano pazienti che si sono già fatti una diagnosi per conto loro…e molto spesso con esito catastrofico. Un mal di stomaco può così diventare il sintomo di una malattia incurabile, senza pensare che la sera prima si è mangiato un fritto pesante. È frequente che ci si prenda gioco nelle corsie degli ospedali di queste persone, ma immaginatevi cosa vuol dire vivere in questo modo. L’ipocondriaco non è un malato immaginario, ma una persona che soffre e l’ipocondria non è una malattia, ma un mezzo di espressione. Come ben spiegato dall’articolo “Ipocondria- silenzi del corpo, rumori dell’anima” , le origini del pensiero ipocondriaco possono avere esordio nell’infanzia e in particolar modo nel rapporto tra il bambino e chi si prende cura di lui: una madre incapace di rispondere in maniera adeguata ai bisogni del figlio o anch’essa ipocondriaca può portare il bambino, nel corso degli anni, a dover badare a se stesso, rispondendo ai segnali del proprio corpo. Il corpo diventa così l’unico oggetto di ansie e preoccupazioni.

Continua a leggere

Oncologia e sessualità femminile
Scoperchiare il vaso di Pandora

Waterhouse John William “Pandora” (1986)

Sono passati solo due anni da quando ho cominciato a lavorare con pazienti oncologici e ricordo molto bene che la prima volta ero molto preoccupato: avrei dovuto vedere una donna che aveva avuto un linfoma ed aveva appena terminato i cicli di chemioterapia. La domanda che mi continuava ad angosciare era “cosa mai potrò fare io per fornire un sostegno a questa persona?”. La domanda potrebbe essere valida per qualsiasi tipo di paziente, ma quando ti trovi di fronte a questo tipo di male ti senti realmente impotente. Sbagliavo. Non soltanto perché ero concentrato sul fatto che avrei dovuto fare o dire qualcosa che avrebbe fatto stare meglio l’altro, delirio di onnipotenza narcisistico dello psicologo alle prime armi, quanto per le aspettative che mi ero creato su ciò che avrebbe voluto la paziente dai nostri incontri. Quello che mi stupì fu che durante le sedute, la paziente parlava della malattia solo in parte, per il resto del tempo mi spiegava le sue preoccupazioni per la figlia che non voleva andare all’università, per il padre anziano con cui aveva rapporti conflittuali, per il marito che non la guardava più come una volta e soprattutto perché dopo la malattia non si sentiva più donna. Per me non era così ovvio che la malattia e queste problematiche fossero collegate. Ingenuamente mi domandavo come fosse possibile che questa signora, dopo aver rischiato la sua vita, subìto un intervento, passato mesi in ospedale e che si presentava con un foulard in testa per nascondere la caduta dei capelli e una mascherina sulla bocca per evitare il contagio di malattie viste le difese immunitarie basse, si preoccupasse di altro che non fosse la sua salute. Sbagliavo ancora.

Continua a leggere

Formazione dell’Identità. Un processo senza Fine

        “  Nasciamo stranieri al mondo, in un mondo che ci è estraneo.”

                                              (Rossella Pozzi)

È così che comincia la nostra avventura, che procede lungo un percorso di appropriazione e investimento del proprio essere e del proprio divenire nel mondo. L’identità umana, concetto apparentemente semplice, ma non unitario in psicologia, secondo l’ottica psicoanalitica è riconducibile ad un lavoro senza fine di formazione, costruzione e ricostruzione del proprio Sé. Durante il corso della nostra vita veniamo sottoposti a turbolenze emotive in seguito all’incontro con l’altro e il Sé si trasforma in continuazione attraverso una sintesi personale e non ripetibile di fattori psicofisici, sociali e storici. Ma quali sono le tappe cruciali della vita attraverso le quali il Sé prende forma?

Continua a leggere

Internet Addiction. Un’arma a doppio taglio

Foto di Robinraj Premchand da Pixabay

La storia di internet è affascinante! Un’idea nata inizialmente nel corso degli anni ‘60 per consentire ad utenti di diversi computer di poter comunicare tra loro, si è evoluta attraverso lo sviluppo tecnologico delle reti di telecomunicazione, fino a giungere negli anni ’90 al lancio del “World Wide Web”. Questo processo di espansione non si è mai arrestato: inizialmente la rete metteva in comunicazione solo i paesi occidentali, poi si è estesa ai paesi in via di sviluppo, oggi tutto il mondo è “collegato”. Noi che apparteniamo al XXI° secolo siamo così abituati all’utilizzo di questo tipo di media, tramite l’uso di smartphone, pc e tablet, che ci dimentichiamo della sua natura complessa e polimorfa, perché siamo ormai dipendenti dalla molteplicità dei bisogni individuali che la stessa rete può soddisfare. La comodità che internet ha fornito e per molti aspetti il suo sano utilizzo, come ad esempio la libertà di informazione, scevra da qualsiasi tipo di controllo mediatico, dato che tutti hanno diritto di parola, nasconde il suo “lato oscuro”, l’altra faccia della medaglia di questo strumento.

Continua a leggere

Le libere associazioni. Immagini e pensieri senza controllo

Ogni individuo è inseparabile, occupa materialmente un certo spazio, è riconoscibile per certe caratteristiche esclusivamente sue, ossia è uno e unico! Sappiamo e ci percepiamo come un tutt’uno, ma riflettendoci un attimo, è così semplice pensare ad un’immagine unitaria di noi stessi? Ad esempio, siamo in grado di distinguere il nostro corpo dalla nostra mente, ma per quanto riguarda quest’ultima, non siamo in grado di farci un idea coerente. Persino di noi stessi come protagonisti della nostra storia, non riusciamo a darci una costruzione sufficientemente unitaria, perché mancano dei pezzi: l’amnesia infantile, ad esempio, ma anche tutte le amnesie seguenti. Utilizziamo i nostri strumenti psichici, ma non sappiamo sempre darci la spiegazione di come funzionino. Tutto ciò per dire che ognuno di noi necessita di concepirsi come un tutt’uno perché altrimenti si troverebbe in una situazione di grave smarrimento.

Continua a leggere

Genesi di un comportamento antisociale. Relazioni di causa ed effetto

“L’assassino” di Edvard Munch

Le questioni della devianza, della violenza e del comportamento che non rispetta le norme sociali condivise sono sempre state argomento di interesse per la medicina e la psicologia. Gli antichi Romani definivano il furor come una forma di follia che portava le persone a commettere reati e ad agire non rispettando le leggi dello stato e i diritti altrui. Lo stesso Ippocrate ipotizzò una base umorale per i processi mentali, per cui uno squilibrio di componenti fisiologiche avrebbe spiegato le diverse manifestazioni, che potevano assumere vesti melanconiche, colleriche, flemmatiche. L’importanza di queste intuizioni risiedeva nell’attribuire per la prima volta a questi comportamenti un malessere mentale slegandoli da interpretazioni unicamente religiose di possessione demoniaca.

Continua a leggere

Disturbo da Accumulo. Quando conservare diventa una malattia

Che differenza c’è tra una foto che ci ritrae in braccio ai nostri genitori quando avevamo un anno di età e una scatola di biscotti vuota? La maggior parte delle persone risponderebbe che la prima ha un valore affettivo e che quindi non se ne separerebbe mai, mentre la seconda è solo qualcosa da buttare. Per una persona affetta da disturbo da accumulo (DA) tutti gli oggetti hanno una loro ragione d’essere: perciò alla precedente domanda, l’accumulatore (hoarder) riuscirebbe a capire di certo la differenza affettiva tra la foto e la scatola, ma non si priverebbe di quest’ultima, trovandole un’altra utilità o conservandola su di uno scaffale. I pazienti con DA hanno con gli oggetti un rapporto non molto diverso da quello che ha la maggior parte delle persone: tutti siamo affezionati ai nostri ricordi e conserviamo oggetti senza valore intrinseco se non il significato psicologico e affettivo che gli diamo noi; così come spesso capita che la maggior parte di noi occupino inutilmente spazio dentro casa o in cantina con oggetti che non ci servono, ma che un giorno potrebbero tornarci nuovamente utili. Il problema è che i pazienti con DA hanno questo rapporto di forte legame affettivo con un numero esagerato di oggetti e vedono in ognuno di essi “opportunità future”, per cui diviene impossibile separarsene. Allo stesso tempo per gli accumulatori gli oggetti sembrano essere “pezzi di sé”, una parte integrante della propria identità e uno strumento per mantenere un legame con parti della propria vita e con il passato, per coltivare la memoria e continuità del sé.

Continua a leggere

Il boomerang delle emozioni. Viverle o evitarle.

Il bacio, Hayez 1859 – Pinacoteca di Brera

Antonino Ferro spiega come l’evitamento delle emozioni sia un’attività principale delle nostre menti, sia di quelle patologiche che di quelle ben funzionanti. Egli parla di proto-emozioni, ovvero primitivi dati sensoriali che in alcuni casi vengono raccolti, contenuti e trasformati in emozione, in altri casi, essendo in esubero, vengono evacuati. Secondo Ferro, però, quando una modalità di evacuazione prevale nettamente sulle altre diventa un sintomo. Per fare alcuni esempi: vi sono meccanismi evacuativi di proiezione all’esterno che danno vita a fenomeni come paranoia, schizofrenie e allucinazioni; meccanismi di evacuazione nel corpo che danno vita a malattie psicosomatiche. Se la strategia è quella dell’evitamento degli stati proto-emotivi si ha l’ossessività; se la strategia è il controllo, l’ipocondria. Insomma, vi è tutta una serie di attività evacuative della nostra mente che sono vitali e la differenza fra funzionalità e patologia risiede nella modalità e nell’intensità con cui questo processo viene affrontato. Alcune persone non vivono passioni brucianti e si spengono nella routine, nella ripetitività, nella noia, pur di tenere un basso profilo di emozioni circolanti. Le emozioni non vissute possono generare in seguito paura, insicurezza e persecuzione. Se è vero però che un’attività della nostra mente è quella di difenderci dalle emozioni, è anche vero che vi è un’altra funzione che cerca di ricontattare quanto viene espulso, segregato o comunque messo a distanza.

Continua a leggere

Lo sviluppo della Mentalizzazione. Comprendere la Mente

Nighthawks – Edward Hopper

Molto spesso mi è capitato di vedere questa scena: una mamma che chiacchiera con le amiche, mentre il bimbo corre e gioca. Ad un certo punto però il bambino inciampa e cade per terra. In realtà non si è fatto nulla, ma la sua prima reazione è quella di voltarsi e guardare la mamma, la quale prontamente corre verso di lui per assicurarsi che tutto va bene. Solo allora quando gli occhi dei due si incontrano, e il bambino scorge la preoccupazione negli occhi della mamma, scoppia in lacrime. Quasi come se tra di loro fosse avvenuta una conversazione in pochi istanti che nessun altro ha potuto ascoltare, dove il bambino le ha chiesto:” Mamma mi devo preoccupare?” e la risposta implicita è stata “Sì”. Nessuno di noi nasce già con la capacità di regolare le proprie emozioni: questa abilità evolve gradualmente attraverso la comprensione e le risposte del caregiver ai segnali di cambiamento dello stato del neonato. La capacità della madre di pensare alla mente del proprio figlio mind-mindeness sembra associata allo sviluppo di una buona mentalizzazione del bambino.

Continua a leggere

Contattaci

Newsletter


Seguici


I contenuti presenti sul blog "ilsigarodifreud.com" dei quali sono autori i proprietari del sito non possono essere copiati,riprodotti,pubblicati o redistribuiti perché appartenenti agli autori stessi.  E’ vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma.  E’ vietata la pubblicazione e la redistribuzione dei contenuti non autorizzata espressamente dagli autori.


Copyright © 2010 - 2022 ilsigarodifreud.it by Giulia Radi. All rights reserved - Privacy Policy - Design by Cali Agency