“Come fosse un sogno, neanche mio…”
Esperienze di derealizzazione-depersonalizzazione

“La realtà
È correre nel vento
Nella gara di nessun traguardo
Nell’amore che sventola nel porto
La realtà non può essere altro”

E. Bennato – “La realtà non può essere questa” (2020)

In questa sua canzone Edoardo Bennato traduceva il senso della limitazione dettata dalla pandemia, dalle quarantene, dai divieti imposti per un senso di sicurezza collettiva, descrivendo una realtà apparentemente persa, sottratta, fatta di quotidiani gesti di condivisione, semplici ma vissuti in uno spazio aperto e libero. La canzone si intitola  “La realtà non può essere questa”, come fosse una rassicurazione, un tentativo di ripetere e ripetersi le certezze di esperienze vissute come reali, concrete e che non possono essere sostituite.

Il timore (in alcuni casi terrore) che la realtà possa essere altro, è il fulcro dell’esperienza angosciante di persone affette da un disturbo di derealizzazione-depersonalizzazione. Questo viene descritto clinicamente come un insieme di esperienze persistenti di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe. All’interno di queste esperienze che paiono frantumare il senso di ciò che si osserva attorno, ciò che resta intatto è proprio l’esame di realtà, ossia la capacità di leggere criticamente i fenomeni circostanti per mezzo delle funzioni cognitive. La domanda classica che spesso ci si pone consiste nel tentativo di spiegarne le possibili cause, i possibili fattori di rischio.

Alcune risposte provengono dalla letteratura sul tema, altre direttamente dalle storie riferite dai pazienti e sembrerebbe come la trascuratezza emotiva assieme ad esperienze di abuso, rappresentino un territorio piuttosto fertile per l’insorgenza di questi vissuti. I primi approcci psicodinamici partivano dall’assunto che la depersonalizzazione e la derealizzazione fossero difese specifiche e complesse nei confronti, rispettivamente, di esperienze emotive e di ansia. Come in altre occasioni il corpo sembra parlare, informare e guidare la persona, indicando nell’assenza del senso soggettivo globale della realtà il sentirsi “come distaccati” da se stessi, dal corpo, dall’ambiente.

La depersonalizzazione sembra meglio richiamarsi ad una sensazione, spesso tradotta in esempio, quella del “come se”. In una esperienza di depersonalizzazione viene descritto, frequentemente, il senso di un corpo che sembra non appartenere alla persona che ne soffre, come se il soggetto fosse uno spettatore esterno; una sensazione di essere me in un corpo che è, in qualche modo, “non me” e così via.

Ci sono anche delle sfumature in tal senso; sono descritte esperienze in cui è soltanto la propria testa ad essere percepita come reale mentre tutto ciò che è dal collo in giù non lo è: “Sento che è come se alcune parti del mio corpo non mi appartenessero”. La derealizzazione è presente raramente in assenza di depersonalizzazione e, pertanto, è generalmente considerata una complicazione di quest’ultima. Quale esperienza di ambiente appare agli occhi di queste persone? Un mondo sostitutivo, ricco o privo di dettagli, distopico?

Nella derealizzazione il mondo viene percepito come irreale, può sembrare un’immagine bidimensionale, un ologramma tridimensionale o un mondo virtuale creato da un software di grafica. Oltre al ruolo svolto dal corpo sono le emozioni “ad orientare” la persona, rivelando il proprio estraniamento; queste infatti possono essere identificate in un modo piuttosto chiaro ma essere sentite come false, “come se”, oppure del tutto assenti. “Non ho più alcun sentimento” può essere infatti una frase ricorrente in una persona che ha vissuto stati di depersonalizzazione o derealizzazione, spesso accompagnati o seguiti da vissuti depressivi.

Sebbene la storia dell’arte e una buona parte della letteratura abbiano enfatizzato il ruolo affascinante, necessario, costruttivo di vere e proprie fughe dalla realtà, va sottolineato come in questo articolo si parli di un disturbo che comporta un certo grado di sofferenza. Cosa accade quando tutto ciò viene riportato nella stanza d’analisi?

In seduta un paziente con depersonalizzazione o derealizzazione potrebbe restare in silenzio, apparire monotono, emotivamente morto o mostrarsi una persona piuttosto concreta. A queste manifestazioni proprie del paziente si legano, in modo concomitante, quelle del terapeuta, esposto a scenari di varia forma e contenuto. In ogni caso, qualunque sia la realtà sostitutiva o le espressioni che richiamano la perdita del senso di realtà, ciò che pare centrale è quella spinta che muove ogni individuo: la ricerca di un significato.

“Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo”.
(Robert M. Pirsig)

Dott. Gianluca Rossini

Psicologo, Psicoterapeuta

tel. (+39) 3661378814 – mail: gianlucarossini.psicologo@gmail.com

Per Approfondire

  • N. Mc Williams, V. Lingiardi, “PDM-2”, Ed. Cortina (2020)
  • B. Van Der Kolk, “Il corpo accusa il colpo”, Ed. Cortina (2014)
  • O. van  Der Hart “Fantasmi nel Sé”, Ed. Cortina (2010)
  •  M. Giannantonio, “Psicotraumatologia”, Centro Scientifico Editore (2009)
  • M. Puliatti, La psicotraumatologia nella pratica clinica”, Ed. Mimesis (2017)
  • G.Liotti, B. Farina, “Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa”, Ed. Cortina (2011)

benessere, consapevolezza, derealizzazionedepersonalizzazione

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