Per un linguaggio inclusivo
Di asterischi, schwa e pronomi

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, sosteneva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein.

Che sia stato su una testata giornalistica, durante una chiacchierata con amici/amiche, sui Social Network, attraverso il personaggio di un webserie o al bar, sicuramente ciascunə di noi ha sentito parlare del grande dibattito sul linguaggio inclusivo che va avanti ormai da un po’, ma che negli ultimi tempi si è acceso ancor di più con l’entrata in scena della Schwa. La Schwa, che simbolicamente è rappresentata come una “e” rovesciata, “ə”, e che si pronuncia con un suono a metà tra la “a” e la “e”, un po’ come la “a” del dialetto barese, è un’alternativa proposta per indicare un gruppo di più persone, siano esse maschi, femmine o persone che non si identificano con il genere binario. 

Per arrivare ad oggi, cercherò in questo articolo di fare un po’ di ordine e di storico. 

Tradizionalmente, nell’uso della lingua italiana, il maschile è considerato il genere dominante. Una situazione che sottolinea questo paradosso potrebbe essere quella di un/a docente che entra in un’aula universitaria con cinquanta ragazze ed un solo ragazzo (come spesso accade in alcune facoltà umanistiche, ma per questo si rimanda all’articolo “Stereotipi e pregiudizi – Una rosa se non si chiamasse rosa”) e che per salutare in maniera linguisticamente corretta dovrebbe dire “buongiorno a tutti”, come se quell’unica presenza maschile definisse il genere di tutta la platea. 

Il dibattito sul linguaggio inclusivo si è evoluto con l’aumento della consapevolezza sulle disparità di genere nella nostra società (e, quindi, nel nostro linguaggio). Normalmente, quando in una lingua non esiste una parola per indicare un determinato fenomeno, è perché quel fenomeno non è sufficientemente rappresentato nel pensiero di quella determinata cultura. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, sosteneva per l’appunto il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. 

Per i/le più tradizionalistə il dibattito potrebbe terminare qui: il plurale inclusivo è sempre stato maschile, che bisogno c’è di cambiare la nostra lingua? Sono molte le persone a schierarsi con questa posizione. Ma la nostra lingua è davvero fatta di pietra inscalfibile? Oppure è più simile all’argilla e basta quindi inumidirla per renderla modellabile? 

Termini come “selfie” (mi perdoneranno le persone che non amano gli anglicismi) non esistevano fino a poco tempo fa perché nessunə sarebbe riuscitə a scattare un autoritratto decente con le macchine fotografiche analogiche. Eppure con l’arrivo degli smartphone l’utilizzo di questo termine è stato sdoganato. 

Allo stesso modo, termini come “sindaca” e “ministra” hanno fatto storcere la bocca a moltə seppure non si tratti di anglicismi, bensì dell’equivalente femminile di professioni detentrici di potere e, quindi, storicamente ad appannaggio maschile. A sostegno di queste posizioni si è attivata anche l’Accademia della Crusca, un’istituzione italiana che raccoglie studiosə ed espertə di linguistica e filologia della lingua italiana, la quale offre pareri autorevoli sulle questioni linguistiche senza però avere un potere normativo. Il femminile della professione di architetto, “architetta”, ad esempio, è considerato corretto e, seppur con grande fatica per coloro che ritengono il termine cacofonico (la cacofonia –oltre al gioco di parole utilizzato in età da scuola primaria- è forse determinata dal mancato uso comune?), ha iniziato ad essere utilizzato con sempre maggiore frequenza. 

Insomma, con grande fatica e andatura da bradipo (sarebbe il caso di dire: meglio tardi che mai), riusciamo finalmente a concepire che esistano anche le donne nel mondo del lavoro e che ad una platea mista ci si possa rivolgere in una maniera più inclusiva, e quindi più rispettosa (perché è di questo che stiamo parlando), salutando ad esempio con “buongiorno a tutti e tutte”. 

Ora, se siete arrivatə con fatica a questa parte di articolo, suggerisco una pausa e di rivederci tra qualche mese: i cambiamenti sono sempre faticosi e le nostre naturali resistenze hanno bisogno di tempo e allenamento per essere allentate. 

Se infatti fino a questo momento abbiamo cercato di essere inclusivə nei confronti delle persone che si riconoscono nel binarismo di genere che prevede le due categorie di maschile (he/him) e femminile (she/her), non abbiamo considerato (mancando quindi di rispetto a) tutte quelle persone che non si riconoscono nel binarismo di genere. 

Per comprendere meglio cosa intendiamo quando parliamo di identità di genere, potete leggere altri articoli della rivista che prima di questo hanno affrontato questi temi (come ad esempio: “Stress e genere – Donne e uomini in crisi”, “Il gender – Questo frainteso”, “Calcio o bambole? Sulle prescrizioni di genere”) ma, data l’importanza della tematica, riporterò nuovamente le definizioni chiave per avere a disposizione tutti gli strumenti necessari. 

§ Il sesso biologico, riguarda il patrimonio genetico che determina i caratteri sessuali primari e secondari di una persona. 

§ Il genere è come una determinata cultura in un determinato momento storico intende i ruoli maschile e femminile. Come è possibile immaginare, è una dimensione in continua evoluzione. 

§ L’identità di genere è la categoria di genere entro la quale ogni persona si identifica, e può essere differente da quella biologica. In tal caso, si potrebbe avere a che fare con una disforia di genere, una condizione clinica di profonda sofferenza per la mancata corrispondenza tra il sesso biologico e l’identità di genere, che potrebbe sfociare nella ricerca di un percorso di transizione, per allineare i caratteri sessuali biologici a quelli identitari (percorsi “m to f” oppure “f to m”). 

§ Tutte queste categorie si distinguono dall’orientamento sessuale, che riguarda l’attrazione di una persona per un’altra dello stesso sesso (omosessuale), dell’altro sesso (eterosessuale), da entrambi i sessi (bisessuale), da nessuno (asessuale). Tra gli orientamenti sessuali ce ne sono alcuni che non rientrano nel binarismo di genere, come la pansessualità, ovvero l’essere attrattə da qualcunə indipendentemente dal suo sesso o genere, e la polisessualità, l’essere attrattə da persone di sesso e genere diverso rifiutando però la netta suddivisione tra maschile o femminile. 

Essere non-binary o queer significa non identificarsi nel binarismo di genere o sentire di non corrispondere completamente alle categorie di maschile o femminile. Vi potrà essere capitato di vedere il pronome “they/them” associato al profilo di queste persone nei Social Network per esempio, ad indicare un’identità che non si riconosce nel binarismo e quindi nei pronomi “he/him”, “she/her”. 

È all’interno di questa complessa riflessione che vuole rispettare le identità di ciascunə che la forma linguistica “buongiorno a tutti e tutte”, includendo il plurale maschile e femminile, non basta ancora. In questo senso la lingua italiana che non possiede forme inclusive di tutti i generi come l’inglese “everybody” per indicare uomini, donne e/o persone non-binary, è andata a cercare delle soluzioni come la finale “u” (tuttu), l’asterisco (tutt*) e oggi infine la schwa (tuttə). 

Non sappiamo ancora se la schwa sarà una soluzione durevole o verrà sostituita da altre forme di linguaggio inclusivo (ad esempio, la sua codifica e pronuncia risulta problematica per persone con alcune tipologie di disabilità), ma ciò che mi sento di dire è che a volte le comfort zone non sono poi così comode, sono semplicemente più conosciute di ciò che non abbiamo mai sperimentato. E nell’ottica di far sentire tuttə inclusə, rispettando e non discriminando le identità di ciascunə, potremmo liberarci di scomode etichette e sperimentarci in una libertà di linguaggio, quindi di pensiero, quindi di azione, in cui muoverci tuttə senza dover rispondere a confini identitari preconfezionati.

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