Abitare se stessi. Sull’impossibilità o la minaccia di uno spazio sicuro

“Casa dolce casa”


Una frase pronunciata almeno una volta nella nostra vita, per richiamare la nostra gratitudine nel tornare in quel posto sicuro, confortante, dove sentirsi in pace con se stessi.


Il concetto di casa rievoca quello spazio interno dove sentirci contenuti ed al riparo, ma anche dove possiamo liberamente “espanderci” coi nostri contenuti emotivi ed affettivi, senza timore di giudicarli o ferirli. Il “sentirsi a casa” si ricollega  alle teorie dell’attaccamento di Bowlby (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo Legame di attaccamento – L’importanza del legarsi) e le teorie di Bion sul concetto di contenitore e contenuti. In sintesi il sentirsi a casa non deve, necessariamente rievocare uno spazio fisico, prestabilito, con un certo tipo di arredamento, ecc, anche se portano con sè una forte carica simbolica ( per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo Casa dolce casa – il bisogno di confini e intimità), ma in primis per sentirmi a casa devo poter rievocare un contatto con il mio spazio interno, ed essere in grado di tutelarlo. Un po’ come una tartaruga che  nel suo viaggiare, porta con sè la propria casa.


Da ciò comprendiamo come molte volte ci ritroviamo in conflitto con noi stessi, rispetto al tutelare i nostri spazi interni, incapaci a volte di porre una giusta (per noi) distanza, e dei confini interni, semipermeabili fra il mondo interno ed il mondo esterno. Dobbiamo immaginare di avere una porta interna e di essere noi a decidere chi far entrare nel nostro mondo e chi invece entra senza il nostro permesso. Accade infatti molto spesso di ricevere giudizi o consigli non richiesti sul nostro stile di vita, oppure identificazioni proiettive disturbanti che invadono il nostro spazio interno e mettono in crisi la nostra libertà di essere, di sperimentarsi e di sbagliare. Ovviamente, “la responsabilità” sul tutelare i propri spazi interni dipende solo da se stessi e talvolta è limitata a causa di un autogiudizio severo che genera forti sensi di colpa o di inadeguatezza ( “sono io che sbaglio sempre e l’altro ha ragione a giudicarmi”) oppure in una difficoltà nell’esprimere una sana rabbia (si rimanda all’articolo Viva la rabbia – sabotatrice o…motore?). Se, dunque, si ripropone un autosabotaggio dei propri confini interni e dunque spalanco la porta a chiunque, non mi resta che “chiudermi in cantina”, ossia isolarmi concretamente dal mondo esterno per “riprendere aria”. Questo movimento, però non permette una comunicabilità, e dunque uno scambio libero e vitale, tra mondo interno e mondo esterno, piuttosto si ripropongono continui strappi identitari tra fusionalità e distanziamento

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In altri casi, vicini alla psicosi, il concetto di casa e di spazio sicuro porta con sé un vissuto di angoscia e di minaccia. Ce lo fa capire in modo egregio la miniserie “La regina degli scacchi”, dove la protagonista, a seguito della morte della madre, a 6 anni si ritrova ad abitare in un orfanotrofio con letti uno affianco all’altro, senza alcuna intimità, e con un “casa dolce casa” di benvenuto espresso dalla responsabile della struttura. Successivamente, dopo aver stretto dei legami con altre ragazze, all’età di 15 anni verrà adottata da una coppia di sposi ed entrerà nella loro vita, depressa, vuota e conflittuale ed accolta ancora una volta con un “casa dolce casa”. Arriva in maniera netta come per la protagonista sia ormai distrutto o ferito gravemente il concetto di casa, di base sicura; e, dunque, non le resta che sovvertire il concetto di spazio sicuro, ormai frammentato e trasformato in un vissuto minaccioso, quasi persecutorio. Il tutto condensato nella sua affermazione “sono stata attratta dalla scacchiera, da quelle 64 case e dal mio desiderio di dominarle tutte”. L’unico modo per rievocare uno spazio sicuro è quello di crearlo nella mente, così come avviene nelle psicosi, dove il flusso tra mondo interno e mondo esterno viene invertito e dunque vivo con gli organi di senso il mondo interno e lo riproietto all’esterno. La parte psicotica, però, se da prima appare seducente e più appagante della misera e angosciante realtà, col tempo inizia a prendere il sopravvento sulla capacità della mente di interpretare la realtà e dunque a colonizzarla, per evitare un’angoscia che ritorna sotto forma di persecuzioni.
Emerge dunque, come il vissuto di sentirsi a casa sia equivalente a quello di sentirsi dentro di sé, abitare il proprio corpo e la propria mente e, da adulti è nostra responsabilità tutelare e legittimare il nostro spazio interno e affrontare, talvolta anche con l’aiuto di una psicoterapia, le ferite interne che ci impediscono di farlo. 

Dott. Dario Maggipinto

Riceve su appuntamento a Chieti

(+39) 334 9428501

dario.maggipinto@gmail.com

Per Approfondire

Bowlby J. (1969) – Attaccamento e perdita, vol 1: L’attaccamento alla madre. Boringhieri, Torino, 1972

Eiguer A. (2004) “L’inconscio della casa”, Borla

Jung C. G. (1977) “Tipi psicologici”, Bollati Boringhieri

Marc O. (1994) “Psicanalisi della casa”,  Red Edizioni

Pesare M. (2008) “Le radici psicodinamiche dell’abitare”, Dialegestha- rivista di filosofia

Pinetti R. (2017) “Il linguaggio segreto della casa – psicologia dell’abitazione”, Youcanprint

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