Guarire dal trauma. Di fantasia e disciplina
Quando parliamo di trauma, la nostra mente va alle grandi catastrofi naturali (uragani, tsunami, terremoti) o artificiali (incidenti), agli abusi o ad altre esperienze che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. Questi sono quelli che gli addetti ai lavori chiamano Traumi con la “T” grande.
Esistono poi tutta una serie di altre esperienze negative che non avvengono in modo cosciente, di cui le persone non sono consapevoli di portare i segni, nonostante l’influenza che queste hanno sul loro comportamento: sono i cosiddetti traumi psicologici o, sempre in gergo tecnico, traumi con la “t” piccola.
Trauma è un termine che deriva dal greco e significa “ferita”. Il trauma psicologico potrebbe essere definito come una ferita che rompe il modo di vivere e di vedere il mondo che quella persona aveva fino a quel momento.
In termini neurofisiologici, quando parliamo di trauma, facciamo riferimento al meccanismo della noradrenalina, normalmente attivato nelle situazioni di attacco-fuga (quelle relative alla sopravvivenza), che nel trauma viene sovra-stimolato e va in cortocircuito generando, tra le diverse risposte, ipervigilanza e reattività amplificata agli stimoli.
Allo stesso modo, vi è una dissociazione dello stimolo: la persona può esperire un’intensa emozione senza avere una chiara memoria dell’avvenimento (tesi), oppure ricordare ogni particolare senza emozionarsi (antitesi). Come sostiene Janet, è messa fuori uso la capacità di sintesi della mente, di hegeliana memoria.
Nell’ambito di questo articolo mi piacerebbe saltare per un attimo il “lavoro sporco” sul trauma, quello in cui terapeuta e paziente si immergono nei liquami della mente, navigando tra resistenze psichiche e dolore indicibile.
Mi piacerebbe saltare al momento in cui ne riemergono e sono pronti per andare a fare una doccia purificatrice, mi piacerebbe analizzare la fase prima del traguardo.
In questa fase, nel campo della mente, ci sono forze della stessa intensità che spingono in direzioni opposte: da una parte l’atleta, esausto/a dai chilometri corsi dando tutto/a se stesso/a, valuta l’opzione di arrendersi, dell’altra visualizza podio, fiori, coriandoli e festeggiamenti. Traducendo in psicoterapeutichese: il/la paziente è davanti a un bivio. Guarirò o sarò condannato/a a stare così per sempre?
Nell’ultima fase del processo di guarigione, la persona sperimenta infatti la possibilità di non essere più posseduta dal suo passato traumatico: si sente in possesso di se stesso/ee può avere accesso immaginifico a un’altra versione di sé. Nelle fasi precedenti, la vita fantastica era dominata dalla ripetizione del trauma e l’immaginazione era limitata da un senso di impotenza e inutilità ma adesso la persona ha la capacità di costruire un nuovo Sé.
Ma quale è questa nuova versione di Sé possibile? La persona ha un’opzione B di Sé? La decostruzione del trauma non distrugge infatti soltanto il Sé reale, ma anche il Sé ideale, costruito sopra all’idea di Sé-con-trauma.
Prendere possesso di se stessi spesso richiede il ripudio di quegli aspetti del sé che erano stati imposti dal trauma e che erano diventati una sorta di comfort zone: una comfort zone scomoda, eppure conosciuta, familiare, in tutti i suoi aspetti. Il dilemma è quindi: abbandonare la propria (non) comfort zone disfunzionale oppure costruirne una daccapo e con nuovi presupposti, ma senza l’assicurazione che sia davvero migliore della precedente?
Nel testo “Guarire dal trauma” di Judith Herman, una donna sopravvissuta all’incesto racconta che le sue risposte sessuali erano fortemente radicate all’interno di uno scenario sadomasochista, arrivando a comprendere che non erano fantasie sue, bensì erano state imposte dall’abuso. Racconta che ebbe un insight durante il percorso di psicoterapia e disse a se stessa: “Se possono mettere il sadomasochismo dentro di te, tu ci puoi mettere le cascate”, così rieducò se stessa a una sessualità sana che non prevedeva pratiche di abuso per raggiungere eccitazione e orgasmo.
Mentre la persona comincia ad avventurarsi nel mondo verso la fine della guarigione, la sua vita diventa più normale perché ha ristabilito relazioni con il proprio Sé, si sente più tranquilla e più capace di affrontare la vita con equilibrio. Allo stesso tempo, questa esistenza più serena, giorno dopo giorno, può essere vissuta come inusuale, quasi noiosa, specialmente da chi è cresciuto in un ambiente traumatico che richiedeva continua ipervigilanza ed esperisce la “normalità” per la prima volta.
Una vita sana ed equilibrata è vissuta quindi con grande ambivalenza: da una parte è bello potersi finalmente “rilassare”, dall’altra le emozioni si attenuano e la vita diventa meno adrenalinica. Quando il/la sopravvissuto/a si libera della sua identità di vittima, sceglie anche di rinunciare a quelle parti di sé sentite quasi intrinseche al suo essere, che lo/la facevano sentire vivo/a.
La realtà è che l’intensità di quelle emozioni celava un profondo senso di “scopertura” e insicurezza emotiva, dove la persona era obbligata a rimanere ipervigile e mantenere tutto sotto controllo come in uno scenario di pericolo imminente.
Per potersi educare a una vita più “sicura” è indispensabile avere fantasia e disciplina: la fantasia di poter reinventare un nuovo sé, più in contatto con la propria autenticità, la disciplina e l’esercizio dell’atleta che, nonostante le energie siano finite, stringe i denti e mira al traguardo, scegliendo, tra le due forze opposte, di lasciare spazio alla luce in fondo al tunnel.
Per dirla con le parole di una paziente di Herman: “Sono diventata dipendente dal mio gusto per il dramma e l’adrenalina. Rinunciare al bisogno di intensità è stato un processo di lento svezzamento”.
Ph.D. Psicologa Psicoterapeuta
Riceve su appuntamento a Perugia e Roma
Per Approfondire:
Van der Kolk B. (2015) Il corpo accusa il colpo
Herman J. L. (1992) Guarire dal trauma
Janet P. (1889) L’Automatisme Psychologique