Narra il mito greco di un Titano, Crono, che evirò e spodestò il padre Urano, sotto richiesta della madre Gea, divenendo a sua volta il Re dell’Olimpo. Nonostante avesse avuto come padre un modello fallimentare che rinchiudeva tutti i suoi figli nel profondo Tartaro, Crono preservava le stesse angosce del padre, ingoiando, di conseguenza, tutti i figli fatti con Rea, per il timore che qualcuno di questi potesse spodestarlo al trono.
Questo mito, come molti di altre religioni pagane e monoteiste, mette chiaramente in scena una dinamica inconscia vissuta nella relazione padre-figlio, ossia l’altra medaglia dell’Edipo (Per approfondimenti si rimanda all’articolo “Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre”): Il complesso di Laio (padre di Edipo).
C’era una volta un re, Edipo, sovrano della città di Tebe; questi, inconsapevole del legame parentale con lei, aveva preso in sposa la moglie-madre Giocasta, vedova del primo marito Laio, ucciso proprio per mano dell’ignaro figlio Edipo; dall’ unione fra lui e la “scomoda” consorte, nasceranno ben quattro figli. In un simile scenario, apparentemente senz’ombra alcuna e che vuole i suoi principali protagonisti all’oscuro della più atroce verità, si cela, di contro, l’emblema dei rapporti incestuosi. Quella stessa verità, una volta svelatasi in tutta la sua crudezza, porterà Edipo, inorridito dagli atti compiuti suo malgrado – cui farà seguito l’impiccagione di Giocasta – ad accecarsi. Un po’ come se, dopo quell’abominio involontariamente perpetrato, come estrema punizione, nulla avrebbe più potuto sottoporsi alla sua visione. Concluderà i suoi giorni esiliato, dimenticato da Tebe e dalla sua gente, allontanato dagli dei. Ed è proprio dalla celebre tragedia greca di Sofocle, l’Edipo re, che Freud trae diretto spunto per dar vita ad una delle nozioni più affascinanti, dibattute e controverse che la storia della psicoanalisi abbia mai conosciuto: il “Complesso di Edipo”, dalla cui modalità di superamento discenderà la futura scelta oggettuale dell’individuo. Esso racchiude in sè l’insieme dei sentimenti e dei desideri di natura sessuale espressi in tutta la loro ambivalenza e provati dal bambino verso i propri genitori: il complesso raggiunge la sua massima espressione fra i 3-5 anni, tempo che coincide con il cosiddetto “stadio fallico”, in cui secondo Freud tutti gli interessi del bambino sembrerebbero ora convogliati, appunto, verso il fallo (presente nel maschio/assente nella femmina.
Ci capita, a volte, di aver paura di qualcosa che a mente fredda reputiamo inverosimile.
Come quelle sensazioni fisiche comuni e diffuse (un mal di testa, un mal di pancia o la scoperta di piccole e antiestetiche macchioline sulla nostra pelle..) che ci spaventano ed evocano in noi incontrollabili preoccupazioni per la nostra salute. Tendiamo ad esternare le paure dal momento che parlarne le rende più digeribili e sopportabili; esse vengono, però, apostrofate come “esagerazioni” dai nostri cari e come “distorte interpretazioni di sintomi somatici” dai medici a cui ci rivolgiamo frequentemente per ricevere rassicurazioni sulla nostra condizione fisica.
Nel persistere di uno stato di angoscia e preoccupazione, ci convinciamo che quel semplice doloretto o fastidio fisico sia il sintomo attraverso cui il nostro corpo ci comunica l’esistenza di una malattia ben più grave. Dal sintomo, alla paura, alla convinzione di nascondere in noi un “seme malato” che può distruggerci piano piano e di fronte cui ci sentiamo deboli ed inermi. Arriviamo a pianificare nella nostra mente strategie poco concrete per scampare alla morte o ad immaginarci catastroficamente come sarà breve il percorso da lì alla fine dei nostri giorni.
Se decidessi di incentrare buona parte del mio discorso su cosa si intenda o no per traumatico, probabilmente finirei con l’esaurire l’intero spazio a mia disposizione, visto e considerato che la definizione di trauma ha già in se tutti gli estremi necessari all’apertura di un vero e proprio dibattito sul “peso” che gli aspetti oggettivi versus quelli soggettivi dell’evento scatenante posseggono nella sua determinazione. Un po’come se, per sciogliere la spinosa questione, dovesse necessariamente prevalere la componente esterna su quella interna dell’esperienza. O viceversa. Rimandando la complessa trattazione sul trauma ad un prossimo e opportuno approfondimento, ai fini di una sua prima comprensione potremmo forse propendere per una interdipendenza dei due aspetti, in virtù della quale gli eventi della realtà esterna e la struttura intrapsichica di base si generano e s’influenzano l’un l’altra. Una persona può esser sottoposta a situazioni così strabordanti sul piano fisico e/o mentale (siano esse circostanze isolate o ripetute nel tempo) che la normale capacità di elaborarle ne viene duramente inficiata, specie se quell’elaborazione ha un costo psichico in termini di dolore o angoscia non tollerabile.
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