Pateo ergo sum. L’essere oltre la diagnosi
Molte volte sento dire: “è un anoressica, è bordeline, è bipolare….”. Queste parole hanno un doppio effetto su di me; da un lato mi fanno venire la pelle d’oca e dall’altro mi fanno sorridere. Un sorriso amaro, ovvio; generato dal fatto che a volte, gli stessi professionisti della salute mentale tendono a fondere, in questa crasi quasi paradossale, termini riferiti all’esperienza con un’etichetta diagnostica.
Lo trovo ingiusto e svalutante rispetto alle infinite possibilità verso cui questo verbo meraviglioso può portare; il verbo essere o, in altri termini, il Da Sein di Heidegger cioè esserci. In questo caso la diagnosi può essere considerata un’arma a doppio taglio, uno strumento utile e pericoloso allo stesso tempo (per un maggiore approfondimento si rimanda all’articolo “La Diagnosi- come dare un nome alle cose“). La parola diagnosi, deriva dal tema del verbo greco diagignosko, ovvero conoscere attraverso; nel nostro caso, riconoscere il quadro psicopatologico attraverso una costellazione di sintomi che vi sono propri. Questo è utile? Ovviamente si, perché in un primo momento ci orienta rispetto alla strutturazione della terapia, ma successivamente deve rimanere una voce fuori campo. Infatti al centro della scena, ricordiamocelo, c’è la persona portatrice di una sintomatologia o comunque di una sofferenza. L’obiettivo della terapia, non è quello di ricostruire la diagnosi, di fidelizzarsi a questa o ancora di cercare di confermarla ma è quello della cura del sé; di fornire una nuova riappropriazione della propria esperienza di vita, un nuovo accesso alla propria dimensione esistenziale che per qualche motivo è stato chiuso o bloccato. In questo senso al di là del sintomo c’ è l’esistenza; il sintomo è incarnato nel suo portatore che lo vivrà a modo suo avvicinandosi solamente allo schema diagnostico di riferimento. Sono diversi gli esempi si possono citare; prendiamo l’abbuffata di una paziente che soffre di bulimia, che è appunto uno dei criteri diagnostici. E’ un’abbuffata per riempire il vuoto? Ma che significa per lei vuoto? Per sentire qualcosa? Ma cosa? In che momento della sua vita è avvenuto per la prima volta? Perché proprio in quel momento? Cosa c’è prima? Cosa c’è dopo? Questi sono solo tanti piccoli esempi di come la diagnosi è solo un riferimento ma deve essere riempita dal significato che il sintomo assume nella vita della persona; solo a partire da questo è possibile guardare all’obiettivo con uno sguardo di onestà intellettuale. In altri termini, non dobbiamo andare dietro unicamente alla sintomatologia così come viene riportata, andando a contare il numero di abbuffate e di condotte compensatorie, oppure andare semplicemente dietro all’elenco dei sintomi somatici di un attacco di panico. Lo sguardo deve andare oltre, non solo fungere da specchio ma fare vedere nuovi orizzonti che la persona da sola non riesce a vedere.
Il sintomo del quadro diagnostico, non è avulso, non vive in un iper-uranio di retaggio platonico, ma si incarna nel paziente; anche se la manifestazione può essere simile, il contenuto è di volta in volta diverso a seconda di come viene vissuto dai diversi individui. Allora le parole qui giocano un ruolo fondamentale; perché non c’è un paziente ansioso, una depressa, una fobica. E’ in gioco l’identità!! Ovvero ci sono pazienti che soffrono di, ma prima di tutto rimane il loro esserci, (il da- sein ricordate?) che in quel momento della loro vita, non sta a noi giudicare, ma capire come e perché, ha scelto di andare a braccetto con una sintomatologia che (per comodità, per rigore scientifico) possiamo riferire a un quadro diagnostico.
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Per Approfondire:
Giampiero Arciero, Guido Bondolfi, Viridiana Mazzola. FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA FENOMENOLOGICA. Cura di sé e psicologia non razionalista. 2019, Bollati Boringhieri Editore.
Martin Heidegger. Essere e tempo. 1927, Mondadori.