Intelligenza Artificiale
Paura o desiderio di inumanità?

L’uomo Bicentenario – film del 1999 di Chris Columbus 

Il tema dell’intelligenza artificiale – dei suoi limiti e soprattutto delle sue potenzialità – sta diventando prepotentemente argomento di tutt*. Ci riguarda tutt* e il suo impiego determina risvolti significativi sul nostro benessere in termimi sia positivi che negativi o inquietanti.

Ogni giorno delego al mio robot aspirapolvere la pratica di togliere i peli dei miei gatti dai pavimenti e la sporcizia che si accumula, potendomi concedere il lusso di spingere solo un tasto e non pensarci più. Ma quando mi fermo a pensare alla possibilità che un giorno – forse non troppo lontano – potrò essere sostituita da un’intelligenza artificiale nel mio lavoro – e esistono già psicoterapeut* AI –  nelle mie relazioni e – perché no? – forse anche nella mia capacità umana di procreare o di morire, mi si profila uno scenario alla Black Mirror e un’angoscia condivisibile mi assale.

Viene definita AI Anxiety l’angoscia di essere sostituit* come genere umano dalle intelligenze artificiali e ci riguarda tutt* nei pensieri consapevoli, nelle quote di paranoia o nei meccanismi di difesa che ci portano ad allontare tali pensieri. Il mondo di Matrix ci inqiueta e ci sembra ancora un’assurdità la rivoluzione delle macchine che tentano la conquista del potere e la visione degli esseri umani come dei virus che infettano il mondo. Scienza, film, libri e opinione pubblica da anni ci presentano panorami apocalittici, follie che oggi possiamo trasformare potenzialmente in realtà. Lo sviluppo tecnologico sta rendendo possibile e talvolta preferibile l’uso delle intelligenze artificiali per simulare competenze umane – ne è un esempio la recente protesta alla base dello sciopero dei professisti Holliwoodiani contro l’impiego coatto e non etico delle AI nel cinema -determinando anche una profonda e angosciante confusione sui limiti tra il reale e l’artificiale. Oggi sui social vediamo Gerry Scotti fare qualunque cosa, ascoltiamo Freddie Mercury cantare Adele o John Lennon produrre una nuova canzone e leggiamo libri che nessuno ha mai scritto.

Un mio paziente estremamente in gamba, colpito da una quota di AI Anxiety, un giorno mi disse: “le Intelligenze Artificiali possono solo – per ora – riprodurre le conoscenze, non creare pensieri nuovi”. Il suo studio approfondito della materia era una personale strategia per superare l’angoscia della sostituzione, ma con quella riflessione aveva saputo sottolineare perfettamente l’unicità umana.

Sono proprio le nostre competenze umane – e sopratutto il mondo delle emozioni e l’incontro con l’altr*– che ci permettono di avere pensieri nuovi e ci rendono unic* per l’altr*.

La letteratura scientifica ci racconta del recente utilizzo di Robot negli ospedali per la comunicazione delle malattie oncologiche in Giappone; di fronte a questa deriva, diventa necessario domandarsi a chi serva tutto ciò? Probabilmente solo al personale medico per difendersi da un’emozione devastante, non di certo a* pazienti che – in un momento così delicato – cercano di rispecchiarsi nell’altr* e di percepire un’emozione per sentirsi meno sol*. Possiamo scegliere di impiegare le intelligenze artificiali per svincolarci da un compito pesante, ma non dovremmo mai perdere di vista l’importanza dell’unicità umana, per noi e per l’altr*.

Nel campo della psicoterapia sono state provate già varie strade che hanno previsto l’impiego delle intelligenze artificiali come l’avatar therapy – terapeut* uman* che,  sottoforma di avatar, entravano in ambienti virtuali per incontrare pazienti online – o le app/chatbot (come Woebot) – per entrare in contatto con una AI di matrice cognitivo-comportamentali e migliorare il benessere psicologico attraverso brevi conversazioni quotidiane tramite chat. Ma noi – pazienti e psicoterapeut* – sappiamo molto bene che è la relazione che cura in un percorso di psicoterapia e che l’incontro di due corpi e due menti ha una potenza che non può essere eguagliata da un’artificio.  

Il mondo dei social fa nascere costantemente nuovi interrogativi sul tema dell’intelligenza artificiale.

Recentemente ha spopolato su TikTok un trend nato in Giappone e poi dall’America arrivato sino a noi che diffonde il fenomeno degli NPC (Non Playble Character ) e che è divenuto famoso in Italia grazie a Giuliana Florio. La creator di origine campane, nelle sue live sul social network più usato dai giovanissimi, assume le sembianze di un personaggio di un videogioco: come in The Sims, muove le mani in modo meccanico, strizza gli occhi e ripete frasi o suoni a seconda del volere degli utenti che – interagendo con lei attraverso piccole donazioni che corrispondono a delle emoticon sullo schermo – le comandano cosa fare e cosa dire. Giuliana da umana si comporta come un’intelligenza artificiale e viene controllata da utenti che, da giocatori senza joystick ma attraverso la tastiera di uno smartphone – determinano le sue azioni, in un processo ai limiti della perversione.

Che gusto c’è nel rendere artificiale un’umana?

Oltre ad una quota sadica di controllo e di piacere correlato all’imposizione del proprio volere, qual è il senso socio-antropologico di questo movimento social – e sociale- che spinge verso una in-umanizzazione?

 “e se avessimo paura di essere sostituit* dalle intelligenze artificiali perché siamo attratt* dalle loro caratteristiche?  e se in fondo avessimo un profondo desiderio di perdere la nostra umanità?”

Parlo del desiderio di poter superare i limiti umani di fronte soprattutto alla fatica del dolore o della crescita, come può capitare di fronte a un libro troppo grande da studiare, alla fine di una relazione o alla perdita di una persona cara. Anche includere il rischio del fallimento è una fatica umana da cui, troppo spesso, proviamo a sfuggire (per maggiore approfondimenti si rimanda all’articolo “Ode a chi sa perdere – nessuno vuole essere Robin”).

E allora tiro in campo un ultimo film e la sua filosofia di base che è per me da sempre illuminante.  L’Uomo Bicentenario racconta la storia di un umanoide interpretato brillantemente da Robin Williams che “nasce” Robot e sceglie di diventare un uomo. A causa di un errore nella sua programmazione, crescendo scopre l’unicità delle emozioni umane, dei legami, dell’amore e delle relazioni e lotta per ottenere la fallibilità umana, rinunciando ad una vita di controllo e perfezione, arrivando a desiderare di morire. La storia parla di un percorso che valorizza l’umanità, un percorso inverso rispetto a quello a cui la nostra società ci sta spingendo.

Forse non saremo sostituit*.

Forse dobbiamo solo imparare ad amare, sostenere, includere la nostra umanità, riconoscendone l’unicità e difendendola.

Solo così, forse, saremo insostituibil* per sempre.

Dott.ssa Emanuela Gamba

Psicologa e Psicoterapeuta a Roma (zona Prati)

tel. 389.2404480 – mail. emanuela.gamba@libero.it

Per Approfondimenti

  • “Io, Robot” (1950) Isaac Asimov
  • “L’uomo Bicentenario” film del 1999 di Chris Columbus
  • “Matrix” film del 1999 delle sorelle Wachowski
  • “Black Mirror” SerieTv di 6 stagioni per Netflix

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