Quali memorie per testimoniare?
La Pisocoanalisi tra narrazione e trauma

“Il cibo dei morti per i vivi” – David Olère 1945

Questo dipinto è un disegno postumo dell’artista che ricorda la sua drammatica esperienza come membro del Sonderkommandodal (2 marzo 1943) fino alla liberazione nel 6 maggio 1945. Il Sonderkommandoera era un gruppo di deportati scelti, soprattutto ebrei, che collaboravano con le autorità del campo. Qui il cibo che rappresenta l’unico nutrimento e fonte di sopravvivenza, ogni altro bisogno che richiamasse la dimensione umana fu negato.

Ci si chiede, dunque, quale cibo simbolico, quale nutrimento possa arrivare, intatto, per essere consumato oggi e se questo sia realmente “digeribile” per una società che spesso ha voluto dimenticare. La questione è se “il cibo dei morti sfamerà i vivi”, se ciò che fu negato allora servirà per nutrire una narrazione della dignità umana e della sofferenza, speranza che non vanifichi il più umile e tormentato dei respiri.

Questo pensiero si lega, in una direzione psicoanalitica, al tema del conservare e del tramandare, assieme agli effetti potenti della restituzione del trauma. Diverse le accezioni nel tempo, da quella classica freudiana come “rottura di una barriera protettiva” (Freud, 1920) al “trauma relazionale precoce” citato da A. Schore che richiama lo stesso “trauma cumulativo” di Masud Khan (1963). Alcuni autori come Walker e van der Kolk hanno invece approfondito una certa passività nelle vittime, parlando di “learned helplessness” (impotenza appresa). A tal proposito risuonano forti le parole dello scrittore ebreo-russo Vasilij Grossman, citato nel testo di C. Mucci “Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale” :

Auschwitz II-Birkenau: colonna di deportati in cammino verso il Krematorium III in funzione di David Olère, 1945

Uno dei tratti più stupefacenti della natura umana che affiorò in quegli anni fu la remissività. Ci furono casi in cui in prossimità del patibolo si formavano code lunghissime che le vittime stesse provvedevano a regolare […]. Certo, qualcuno si oppose, qualcuno tra i condannati mostrò coraggio e tenacia, ci furono delle sommosse, alcuni misero a repentaglio la propria vita e quella dei propri cari pur di salvare persone che si conoscevano appena o non conoscevano affatto. E tuttavia la remissività della massa resta un fatto inconfutabile. Che cosa ne deduciamo? Un nuovo tratto della natura umana? No. Piuttosto un nuovo modo tremendo di plagiare gli esseri umani. La violenza estrema dei sistemi totalitari si è mostrata capace di paralizzare i cuori su interi continenti” (Grossman, 1980).

Il “trauma sociale massivo” è così definito perché derivante da esperienze di devastazione; l’aspetto centrale è dato da un’azione non causata da un singolo individuo ma da una collettività organizzata “per fare il male”. Lifton (1999) sosteneva che “quando i soggetti soffrono a causa di un disastro naturale tendono ad accettare l’evento come parte del loro destino”. Nel testo della Mucci (p.63) ci si chiede invece: Cosa succede quando il trauma è massivo, quando, come scrive Ilse Grubrich-Simitis, viene realizzato “un universo psicotico, come è accaduto per la Shoah? In questo caso si assiste alla rottura di tutti i legami familiari, alla perdita dell’ambiente socioculturale e domestico, alla costante angoscia da separazione, a tortura e assassini. Questo contribuisce all’eliminazione di ogni forma di dignità ed identità personale, la riduzione a numero insignificante, a “Figuren” per citare il linguaggio nazista.

Un tale meccanismo consente all’Altro, in modo intenzionale o “comandato” ( per un approfondimento sul tema “La banalità del male” – Hanna Arendt, 1963) di sterminare “facilmente e senza rimorso” uomini, donne, anziani e bambini senza distinzione. L’assistere, quotidianamente, alla negazione dell’umanità porterà Primo Levi ne “I sommersi e i salvati “ (1986) a formulare la domanda irrisolta e collettiva “Warum”? ( Perché?)

“Ammissione a Mauthausen” – D. Olère (1945)

Come si apprende dal testo della Prof.ssa Mucci la psicoanalisi può fungere da strumento per la narrazione, per la testimonianza, per permettere un compito impossibile: ricordare e narrare ciò che rappresenta l’indicibile, il non pensabile. Questo compito si estende, proprio come il vissuto di trauma concreto e simbolico, tra tre diverse generazioni, ognuna legata ai propri silenzi, sogni traumatici, tentativi di ricostruzione. Quindi “perché la narrazione della storia (del trauma) è così importante e davvero determinante per la guarigione?”

Secondo Sue Grand, l’esperienza traumatica può essere vista come un momento progressivo “dal non linguistico al linguistico, dalla frammentazione alla coesione, e dalla solitudine alla reciprocità” (Grand, 2000, p.37). La terapia tenta questo straordinario rimettere insieme i pezzi, tra Io e tu, tra vita e morte, dopo le esperienze più atroci. Come sostiene Dori Laub, “nel trauma è il legame fondamentale tra me e l’altro che è andato perduto, ed è proprio quello che la terapia tenta di risanare”. Vari studi dimostrano oggi come sia la comunicazione tra i due emisferi destri (si veda A. Schore) di paziente e terapeuta a funzionare nello scambio terapeutico e a fare la differenza. In questo caso non c’è interpretazione che tenga, l’atto principale che può salvare è dato dalla costruzione della relazione.

Concludendo come direbbe Janet (1925) “la memoria è l’azione di raccontare una storia”, una storia di milioni di respiri (negati) che rifiutano la sentenza e non la domanda: “Warum”?


” Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”
Liliana Segre

Articolo a cura del Dott. Gianluca Rossini – Psicologo

Per Approfondire

  • C. Mucci “ Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale” Ed. Cortina (2014)
  • V. E. Frankl “L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti” Ed. Franco Angeli (2017)
  • B. van der Kolk “Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche” Ed. Cortina (2015)
  • H. Arendt “La banalità del male” Ed. Feltrinelli (2019)
  • L. Segre “La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah” Ed. Bur (2015) 
  • P. Levi “Se questo è un uomo” Ed. Einaudi (2014)

consapevolezza, cura, relazione, violenza

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