La violenza assistita
Un paradosso relazionale
È necessario prima di tutto considerare la natura intrinseca della violenza assistita: la sua invisibilità. È possibile riferirsi ad essa come ad una tipologia di violenza “nascosta” o “segreta” dal momento che il suo verificarsi avviene nel luogo – fisico e psichico – più intimo: la famiglia.
Avvicinare il termine “violenza” a quello di “famiglia” è particolarmente difficile. Si entra in un “paradosso relazionale” per cui il luogo deputato alla sicurezza e alla protezione si connota di affetti contrastanti; i genitori che dovrebbero essere le figure responsive in grado di fornire cura e sicurezza si configurano come fonte di minaccia e/o di pericolo per i propri figli, oppure fonte di deprivazione e trascuratezza.
Parlare di violenza in famiglia vuol dire anche dover considerare la natura eterogenea del fenomeno. Le forme di violenza presenti nel contesto di accudimento possono essere, infatti, molteplici e coesistenti.
La violenza domestica, intesa come violenza perpetrata da un genitore sull’altro, è uno dei tragici fenomeni di cui si ha contezza ogni giorno, ma del quale troppo poco spesso si evidenziano le conseguenze psicologiche per il bambino che ne fa esperienza.
È fondamentale considerare che qualunque sia la forma con cui avviene la violenza tra i due partner, che sia fisica, verbale, psicologica o anche economica, i figli ne rimangono in ogni caso ampiamente coinvolti.
Molto spesso ci si riferisce a questi bambini come ai testimoni oculari del fatto; definire il bambino come colui che assiste vale a dire asserire che quest’ultimo sia stato effettivamente presente durante l’intero episodio violento e vi abbia “partecipato” come spettatore. Tale condizione, se pur effettivamente vera in alcuni casi, non ricopre l’ampio ventaglio di possibilità per cui un bambino sia esposto a violenza domestica. Non necessariamente i bambini devono essere testimoni diretti e dunque osservare con i propri occhi gli episodi di violenza; la maggior parte dei figli assiste agli specifici eventi attraverso il sentire: per esempio possono ascoltare i rumori, gli oggetti che sbattono o l’arrivo dell’ambulanza o della polizia.
Ad avere un effetto traumatico non è solo il momento dell’episodio ma anche l’effetto; dunque, il “dopo” e le conseguenze che il bambino è costretto a vivere. Anche le conseguenze riflettono un ampio ventaglio di possibilità. Un genitore può necessitare di cure mediche perché ferito, il bambino può percepire l’ambiente pieno di tensione, può dover essere allontanato e portato in un luogo protetto o vedere il genitore maltrattante essere portato via dalla polizia.
Sono i figli “silenziosi” che diventano vittime di ciò che accade nel contesto familiare.
Il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e Abuso all’Infanzia (C.I.S.M.A.I) nel 2003 ha dato un nome, una connotazione e dunque un riconoscimento alla forma di maltrattamento primaria nell’infanzia che vede coinvolti i bambini che assistono e fanno esperienza di violenza assistita – violenza intrafamiliare.
Il panorama entro cui si affaccia la violenza assistita è dunque quello del maltrattamento all’infanzia e rappresenta, purtroppo, la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro Paese.
È necessario prima di tutto considerare la natura intrinseca della violenza assistita: la sua invisibilità. È possibile riferirsi ad essa come ad una tipologia di violenza “nascosta” o “segreta” dal momento che il suo verificarsi avviene nel luogo – fisico e psichico – più intimo: la famiglia.
Le esperienze di violenza assistita, ripetute nel tempo, possono minare l’adeguato sviluppo psichico del bambino, compromettendone più aree.
Quando il bambino fa esperienza di una serie di eventi traumatici che lo rendono temporaneamente impotente o che alterano i suoi meccanismi di difesa e le sue solite strategie di coping, sta affrontando un trauma che, derivante dall’ambiente esterno, comporta cambiamenti interni che si protraggono nel tempo. Il primo evento traumatico avviene improvvisamente ma i successivi creano una sorta di aspettativa e dolorosa anticipazione che mobilita il bambino e i suoi tentativi di protezione, difesa e senso di padronanza.
L’ambiente assume una significativa rilevanza. Considerato alla luce del fenomeno della violenza assistita, sembra avere un duplice significato: da una parte si fa riferimento alla realtà esterna, la cornice entro cui si verificano gli episodi violenti, reali e tangibili; dall’altra ci si riferisce all’ambiente di accudimento inteso come le attività genitoriali di holding – sensibili, empatiche, supportive oltre che fisiche.
Nel momento in cui il bambino fa esperienza di risposte empatiche da parte dei suoi genitori, in grado di strutturare un ambiente in cui contenerlo emotivamente, avrà la possibilità di creare un modello del sé sano; in caso contrario, le risposte inadeguate e/o insensibili, verosimilmente legate ad ambienti violenti, favoriranno lo sviluppo di un modello del sé nel bambino basato sul fallimento ambientale.
Dott.ssa Chiara Morale
Vincitrice del Contest We Want You – Psicologa a Roma
email. morale.chiara@yahoo.it
Per Approfondire
C.I.S.M.A.I. (2017), Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri, in https://cismai.it/requisiti-minimi-degli-interventi-nei-casi-di-violenza-assistita.
Salerno A. (2014). Apprendere la violenza. Effetti della violenza domestica sullo sviluppo di bambini e adolescenti. Psicologia di comunità, 2.
Williams R., (2009). Trauma e relazioni: Le prospettive scientifiche e cliniche contemporanee. Milano: Raffaello Cortina.
Winnicott D. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze: Martinelli.
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