La codipendenza
Io ti salverò

La prima volta che in letteratura compare il termine codipendenza è per designare il/la partner della persona alcolista.

Premessa necessaria per la sottoscritta: Personalmente non amo la parola alcolista, così come non amo la parola autisticə, o obesə perché identificano la persona con una caratteristica, in genere utilizzata in maniera stigmatizzante.

Pertanto, a meno di non usare formule proprie della letteratura e quindi contestualizzate storicamente, utilizzerò la formula “persona con dipendenza da alcol” che, sebbene sia meno immediata, riconosce alla persona una complessità dentro la quale, tra le altre cose, rientra anche quella caratterista: una dipendenza da alcol, una sindrome dello spettro autistico, una forma di obesità.

Tuttə conosciamo i gruppi degli Alcolisti Anonimi, merito anche delle rappresentazioni forniteci da Hollywood e dal mondo delle webserie. Sono gruppi di auto mutuo aiuto nati negli Stati Uniti negli anni Sessanta al fine di confrontarsi, alla presenza di un tutor moderatore, su alcuni temi comuni alle persone partecipanti, e osservare insieme le conseguenze negative della dipendenza, le ragioni del suo esordio, le dinamiche che impediscono di cambiare, nonché ascoltare le esperienze altrui, rispecchiandosi e monitorando il proprio percorso e i propri eventuali passi avanti e indietro. Il percorso standard prevede un programma in Dodici passi per eliminare la dipendenza e ad ogni incontro viene recitato il seguente mantra, che trovo illuminante: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”. Questa frase viene usata all’inizio e alla fine nei gruppi degli Alcolisti Anonimi.

In ogni caso, non è degli Alcolisti Anonimi di cui parleremo oggi, ma delle persone che hanno una relazione significativa con chi fa abuso di sostanze: i/le cosiddettə codipendent. Già nel testo, ormai diventato un classico, “Donne amano troppo” di Robin Norwood si parlava dei/delle familiarə delle persone con dipendenza da alcol, sottolineando come, contemporaneamente ai gruppi degli Alcolisti Anonimi negli Stati Uniti erano nati gruppi denominati “Al-Anon” e dedicati per l’appunto a questa utenza.

Normalmente chi si lega a un/a persona con dipendenza da sostanze (alcol o droga) è animatə dalla speranza di cambiarlə, salvarlə, guarirlə dalla dipendenza. Quante volte abbiamo sentito parlare del “complesso della crocerossina”, che vede la donna impegnata nel voler salvare il/la suo partner? Nondimeno potremmo parlare del “complesso del crocerossino”, che prevede che il ruolo del “salvatore” sia impersonato dall’uomo. Il/la crocerossinə dedica la propria vita al recupero dell’altra persona, talvolta sopportando situazioni al limite, spesso finendo per trascurare se stessə: nella relazione c’è spazio solo per i bisogni della persona in difficoltà (con dipendenza da alcol per esempio). A volte i propri bisogni vengono percepiti come banali o poco interessanti, come se solo le situazioni “estreme” potessero essere degne di attenzione.

La radici di questo scenario asimmetrico (e una stabile asimmetria nelle relazioni è sempre un campanello d’allarme) potrebbero risiedere in un passato dove a questə bambinə veniva richiesto di essere buonə, bravə, di aiutare in famiglia, o ancor di più di sostituirsi a un genitore o di salvare un membro della famiglia, insomma di dover crescere in fretta. Dovendo diventare adultə prima del tempo, non è stato possibile possibile lo sviluppo graduale del mondo affettivo, che rimane pertanto bloccato al tempo in cui ha dovuto abdicare alla sua infanzia. Queste persone potremmo definirle, con un’espressione della dott.a Canovi “piccoli bambini camuffati da adulti e una volta cresciuti, adulti in realtà rimasti bambini”.

Non c’è stato spazio per questə bambinə per ascoltare i suoi bisogni e questo lə renderà incapaci di ascoltarsi da grandi: ci sarà sempre qualcosa più importante di sé, che aiuta a distrarre dal guardare il proprio mondo emotivo. Queste persone hanno una consapevolezza sottopelle della propria difficoltà, che però sembra così spaventosa e impossibile da affrontare, che rende preferibile l’opzione di coprirla con altri problemi, quelli del/la partner, più importanti ed urgenti.

Il grande problema di queste esperienze infantili così intense, è che incatenano la persona nella ripetizione di un rigido pattern dove le relazioni intime future ricalcano il modello di quelle passate. E’ la famosa “coazione a ripetere”.

Tra tutti gli uomini, tra tutte le donne con cui instaurare una relazione intima, sceglieranno (inconsapevolmente) un partner che lə porterà a fare esperienza di una dinamica simile a quella vissuta in passato. Vi sarà capitato di sentire qualcuno dire: “ma perché tuttə quellə così si avvicinano sempre e solo a me?”. Le conseguenze di queste relazioni-copione sono estremamente dolorose, perché la lotta contro l’avversario (l’alcol, ad esempio) è una lotta impari e persa in partenza.

Come si può fare quindi a spezzare lo schema?

Serve tanto coraggio. Occorre farsi forza e guardare nel proprio buco nero che tanto spaventa, e in questo senso può essere utile una massima dello psicoanalista Winnicott, che recita: “La paura del crollo non è altro che il ricordo di un crollo che è già avvenuto”. Guardare nel proprio buco nero non sarà mai un’esperienza peggiore di quella già fatta.

Una volta trovato questo coraggio, fatta la conoscenza di questo buco nero e prese le sue misure, potrò iniziare a lavorare per ristrutturarlo. Grazie al supporto di un/a professionista sarà possibile guardare con altri occhi alle nostre esperienze, accettarle e iniziare a sperimentare nuove modalità relazionali, che possano essere nutrienti.

Nonostante la letteratura abbia creato miti come “le relazioni che salvano”, “nessuno si salva da solo”, “la metà della mela”, “la persona che ci completa”, io amo credere (e molta letteratura scientifica supporta questa idea) che ognunə si salvi da solə, non solo nel senso di isolatə dal proprio contesto, ma il lavoro sporco sarà il mio, e sarò supportatə da uno stuolo di supporter che mi vogliono bene e vogliono il mio bene. E poi, una volta fatto questo lavoro, la relazione sarà una festa: non servirà a colmare vuoti o dolori o distrarre dalle mie esperienze passate, ma renderà la mia pienezza ancor più piena e colorata.

Per approfondire

Canovi A.G. (2022) Di troppo amore. Sperling e Kupfer

Herman J.L. (1992) Guarire dal trauma

Norwood R. (1985) Donne che amano troppo

Winnicott D.W. (1965) Sviluppo affettivo e ambiente

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